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I cambiamenti nell'impero romano

(A proposito di R.Mac Mullen, Changes in the Roman Empire. Essays in the Ordinary, Princeton 1990)[*]

di ARNALDO MARCONE (Parma)



Poiché un popolo dove in tutto è entrata la
corruzione non può neanche piccol tempo, ma
punto viver libero.
(N. Machiavelli)


Sommario



1. Una storia "dal basso"?

Che questo volume di Ramsay Mac Mullen sia molto di più di una semplice raccolta di saggi risulta già dalla piccola provocazione contenuta nel titolo che va di necessità letto insieme al suo sottotitolo ( Essays in the Ordinary). I "cambiamenti nell'Impero romano" sono infatti studiati nella sfera 1) dell'acculturazione; 2) del linguaggio artistico; 3) dell'atteggiamento in materia religiosa; 4) del sesso; 4) delle relazioni sociali; 5) dei gruppi sociali.

Nel libro, in realtà, la provocazione inizia già a partire dalle illustrazioni scelte per la copertina: il margine superiore riproduce una porzione del celebre mosaico di San Vitale a Ravenna raffigurante l'Imperatrice Teodora mentre quello inferiore contiene le scene di vita quotidiana di un mosaico antiocheno. Ma l'intenzione innovativa dell'A. risulta evidente quando si considerano i due contributi redatti ex novo per questa raccolta: Ordinary Christians in the Later Persecution (pp. 156-161) e The Historical Role of the Masses in Late Antiquity (pp. 250-276).

Nell'introduzione M.M. chiarisce qual è stato il suo obbiettivo: quello di attirare l'attenzione sugli aspetti della storia dell'Impero privi della scorrevolezza e dell'interesse della narrazione politica attraverso il ricorso all'uso delle scienze sociali che è stato introdotto dalla scuola delle Annales. Ma la possibilità di un ricorso proficuo a tale approccio si ha, per il mondo antico, solo con l'Impero romano perché è solamente nei primi quattro-cinque secoli dell'era volgare che si è preservato materiale sufficiente.

In proposito, soprattutto con riferimento ai due saggi citati, vien fatto di chiedersi se qui abbiamo a che fare con un tentativo di "storia dal basso" nel senso di una ricerca volta a fare emergere le opinioni della gente comune, il suo modo di sentire in rapporto alle trasformazioni sociali. Eric Hobsbawn ha ricordato (History from below. Studies in popular protest and popular Ideology in honour of George Rudé, Montréal 1985, pp. 63-73) come i "grassroots historians", che dedicano gran parte del loro tempo a scoprire come una determinata società funzioni, abbiano il grande vantaggio di sapere quanto poco sappiano e come siano ignoranti dei fatti e delle domande ai loro problemi. Si aggiunga che la scoperta del valore di certi incartamenti processuali per indagini di storia della mentalità (il riferimento agli atti relativi al mugnaio Domenico Scandella detto Menocchio reso celebre da Carlo Ginzburg è obbligatorio; in mancanza di meglio M.M. propone, da parte sua, di leggere i testi astrologici in chiave di storia sociale: Social History in Astrology, pp. 218-224), con l'ampliamento e dell'arco cronologico e il passaggio a uno spettro più ampio di indagine storica rispetto a quello proposto dal marxismo, ha arricchito di molto le prospettive della ricerca (cfr. J.Sharpe, La storia dal basso, in P.Burke ed., La storiografia contemporanea, trad. it., Bari 1993, pp. 31-50).

2. Il ruolo delle masse nella Tarda Antichità

Il ruolo delle masse nella Tarda Antichità emerge, in ultima analisi, sullo sfondo di un cambiamento nei rapporti di potere e nella sostanziale stabilità di determinate condizioni e pone interrogativi riconducibili a problemi oggi di attualità. Con una precisazione: che anche nel concetto di "massa" va presupposta una gerarchia nella nostra, per quanto remota, possibilità di coglierne il modo di sentire perché è solo il popolo minuto delle grandi città — Roma in primo luogo — che ha potuto giocare un suo ruolo. La stabilità è data, da un lato, dalle necessità di un gran numero di bisognosi che andavano in qualche modo soddisfatte. E per prevenire disordini urbani l'unica soluzione rimaneva quella delle distribuzioni alimentari. Al punto che una funzione delicata come quella di prefetto urbano, tradizionalmente riservata ai senatori, nella Tarda Antichità era giudicata sulla base della capacità del suo titolare di mantenere l'ordine pubblico, ovvero di soddisfare i bisogni primari della plebe romana. La novità è rappresentata dal cristianesimo e dagli obblighi che la nuova religione imponeva ai ricchi rispetto ai poveri.

E con questo tocchiamo uno dei temi forti di riflessione di M.M., che ha appunto a che vedere con la cristianizzazione della società imperiale. Ma a una prima verifica lo scetticismo sembra destinato a prevalere così che alla fine viene da chiedersi ancora una volta con lui: What difference did Christianity make (pp.142-155)? Da una parte le collezioni omiletiche preservano numerose trattazioni dedicate al tema dei doveri dei ricchi verso i poveri. Ma le norme di condotta prescritte dalla Chiesa non ottennero di rendere più tranquille le relazioni fra le classi sociali. Qui è fondamentale il tema del potere e della sua nuova configurazione: l'indipendenza nell'azione amministrativa rendeva quanti detenevano la carica episcopale una specie di piccoli re. Ed è qui che il popolo entra in gioco perché le manifestazioni, spesso clamorose, di consenso accompagnavano non di rado un'elezione e servivano a piegare un'eventuale riluttanza (per tutto questo è inevitabile ora leggere quanto scrive P.Brown, Power and Persuasion in Late Antiquity, Madison 1992).

Ma non è solo nel momento della scelta di un candidato che la folla si faceva sentire. In verità il vescovo tardoantico di M.M. assomiglia in modo assai caratteristico a un predicatore del venerdì in una moschea se non a un telepredicatore dei nostri giorni. Certo è un leader religioso cui non mancano le competenze di quelli che correntemente vanno sotto il nome di mezzi di comunicazione di massa, che chiama a sé i propri fedeli e li incita alla difesa di un articolo di fede sino allo scontro fisico. Per questo scopo c'è una tecnica specifica che consiste nel ridurre le questioni sul tappeto a slogans adatti a essere messi in musica (cfr. dello stesso M.M., The preacher's audience, «JThS» 40, 1989, pp. 506-509).

Insieme alle rivalità religiose concorrono a mobilitare le masse la venerazione dei martiri con la sua peculiare valenza civica. È suggestione acuta quella di ricorrere alla psicologia della violenza per tentare di spiegare la dinamica di eccitamento e di frenesia che poteva agitare degli assembramenti di folla. Da una parte viene in mente quanto scrive P.Veyne a proposito dei conflitti settari che sono, con l'ossessivo moralismo, uno dei temi dominanti nel cristianesimo antico e dall'altra quanto può scaturire, come termine di paragone e di sollecitazione, dall'esperienza quotidiana di vita in una moderna megalopoli ove la violenza può avere le cause — e le giustificazioni — più diverse, ma che sembra trovare in se stessa la propria ragione ultima.

3. La legislazione tardoimperiale e il problema della corruzione

Al tema generale della cristianizzazione M.M. ha, come è noto, dedicato uno uno dei suoi libri più recenti, Christianizing the Roman Empire (New Haven 1984). È ovvio che alcuni saggi di questa raccolta ripropongono problematiche sviluppate più ampiamente in quel libro. Val la pena di soffermarsi su un argomento, quello della crudeltà della legislazione tardoimperiale, perché esso è strettamente connesso ad un altro, quello della corruzione. È difficile dimostrare quale parte abbia avuto il cristianesimo nell'aggravamento delle condanne. La fede religiosa può certamente aver contribuito a rendere più crudeli le pene. Ma la società civile, soprattutto nel IV secolo, è lungi dall'essere pienamente cristianizzata ("the empire's religion was a mixed thing") ed è rispetto a una corruzione che si fa sempre più dilagante che legiferano, con dubbio successo, gli imperatori.

M.M. ritiene che ci si trovi di fronte a un nuovo standard morale che rende consueti comportamenti inconcepibili nei secoli precedenti. Quest'idea gli è a cara al punto da comparire nella prefazione alla monografia dedicata alla corruzione nel suo rapporto al declino di Roma (Corruption and the Decline of Rome, New Haven 1988). Qui si legge che, rispetto a una situazione in cui il governo era in grado di ottenere l'esecuzione delle sue decisioni attraverso una struttura "di obbedienza e di influenza" resa effettivamente funzionante da un insieme di leggi morali che era accettato e che permeava le relazioni sia pubbliche che private, si sarebbe gradualmente sviluppato un codice contrastante: il risultato fu che il potere tanto pubblico che privato finì per essere considerato una fonte di guadagno.

Rispetto a queste considerazioni di sofferta attualità, che risultano tanto più degne di nota proprio perché vengono da un rappresentante di un Paese sensibile ai rischi della degenerazione del potere, non sorprende che verso la fine di quel libro M.M. renda esplicita la propria preoccupazione per il declino della moralità pubblica negli Stati Uniti (cfr. B.Ward-Perkins, «JRS» 83, 1993, p. 265). La realtà italiana di oggi può naturalmente indurre a riflessioni ancora più amare (ma non tutti: L. Perelli, La corruzione politica nell'antica Roma, Milano 1994 sostiene curiosamente che la corruzione nella vita pubblica della Roma antica fosse di gran lunga superiore all'attuale; rispetto a tale tesi, quanto meno indimostrabile, giuste sono le critiche di E. Narducci, Processi politici nella Roma antica, Bari 1995, pp. 88-89): chi scrive si limita ad auspicare che l'uomo politico, e storico dilettante, autore di un libretto sulla corruzione nel mondo antico, sia stato mosso solo da preoccupazioni di difesa d'ufficio di un ceto politico nella tesi del guadagno illecito come fattore ineliminabile della vita politica di ogni tempo (R. Nencini, Corrotti e corruttori. Nel tempo antico, Firenze 1993).

4. La resistenza alla romanizzazione e il declino del mondo antico

A un livello più serio impressiona come l'argomento della corruzione possa essere coniugato a quello del "declino" (il tema del declino è tradizionalmente presente nella cultura occidentale: forse non è un caso che proprio ora si parli di "cicli della storia americana" nel momento della fine della guerra fredda e del confronto tra i blocchi). In M.M. sembra avvertibile una forma di rimpianto per l'epoca ancora decisamente creativa e ottimista dei primi due secoli dell'Impero, una nostalgia che lo avvicina al modo di sentire del suo grande predecessore sulla cattedra di Storia Antica di Yale, M.Rostovtzeff. Sembra soprattutto operante in lui una considerazione favorevole del Principato augusteo in quanto realizzatore di un sistema amministrativo adeguato. Vero è che si tratta, in realtà, di una tendenza oggi diffusa che tende a equiparare il buon governo con la buona amministrazione (cfr. G.Alföldy, «Gnomon» 61 (1989), pp. 407-418).

La società imperiale, dopo la crisi del III secolo, appare in effetti come richiusa su se stessa. Uno dei "cambiamenti" più rilevanti riguarda proprio il declino nella capacità di romanizzazione perché viene meno la consapevolezza dei Romani nella loro superiorità culturale. C'è un termine di paragone che è indicativo di questa trasformazione e riguarda la capacità di assorbimento delle popolazioni straniere. Fino a un certa epoca queste, una volta entrate nell'Impero romano, perdevano presto le loro caratteristiche etniche acquisendo i costumi romani. Nel IV secolo, al contrario, i laeti insediati nell'Impero potevano assomigliare ai loro ospiti nella misura in cui questi a loro volta si stavano barbarizzando. Ed è alla luce di questa nuova realtà che è giusto riconsiderare il processo di romanizzazione ed i suoi limiti.

M.M. suggerisce un angolo di visuale diverso dal solito per studiare tale processo, ovvero chiedendosi perché in taluni casi non si realizzasse e perché ci fossero persone che non ricercavano prestigio all'interno della loro comunità adottando il modo di parlare dei Romani, il loro abbigliamento e così via (Notes on Romanization: pp. 56-66). La risposta è a un tempo perentoria e plausibile: l'assenza di motivazione. Il senso oppressivo della propria posizione all'interno della società doveva scoraggiare il grosso della popolazione dall'aspirare a migliorare la propria posizione.

La "resistenza" alla romanizzazione non deve quindi essere pensata necessariamente in senso positivo, come un nazionalismo cosciente, destinato a esprimersi nell'attaccamento a tradizioni ancestrali o in comportamenti eroici, ma anche in negativo, in una riluttanza senza consapevolezza a modificare il proprio modo di vita: già tempo fa M.M. aveva scritto che quello che caratterizzava gli outsiders non era necessariamente diretto contro la civiltà romana in quanto tale (Enemies of the Roman Order, Cambridge 1966, p. 217).

Il IV secolo è un momento di svolta. L'unità del mondo greco-romano, operante in passato almeno al livello superiore della società viene meno e le componenti locali, a Oriente come a Occidente, assumono caratterististiche sempre più evidenti. La "democratizzazione della cultura", sulla quale aveva riflettuto Santo Mazzarino, si esprime tanto nelle lingue che, dal celtico, al siriaco, al copto, al punico, si sentono sempre più spesso menzionare, come nelle espressioni di un'arte ingenua. Il cosmopolitismo rassicurante della società urbana dei secoli precedenti con la sua sostanziale uniformità sembra un ricordo: ormai è il mondo della campagna, con le sue differenze e i suoi particolarismi, che contrasta con la città.

L'atteggiamento di sdegnosa sufficienza dell'abitante della città nei confronti di quelli della campagne non deve indurre a sottovalutare la forza numerica di questi ultimi, anche se le relazioni economiche e di dipendenza tra gli uni e gli altri si possono spesso solo congetturare. Le due entità che sono meglio identificabili, quelle dei Circoncellioni in Africa e quelle dei Bagaudae in Gallia, hanno caratteristiche differenti legate a peculiarità regionali. Quel che colpisce è, da una parte, il fatto che la diffusione del cristianesimo in ambito urbano accentuasse la separatezza tra i due mondi e, dall'altra, che la lingua stessa cominciasse a costituire una barriera che richiedeva forme di mediazione. Un interprete locale si sarà reso necessario per placare l'insofferenza dei coloni africani che non parlavano né il greco né il latino.

5. Una società multilinguistica e polietnica

Una società complessa richiede forme di comunicazione diversificate e una polietnica ha bisogno che queste siano resi particolarmente duttili. Il problema dell'esecuzione di un ordine inviato dal centro alla periferia non è solo di trasmissione e di scrupolosità nel metterlo in atto, ma anche di diffusione e di comprensione. Qui il discorso investe di necessità quello più generale dell'alfabetizzazione che il recente libro di W.Harris, (Ancient Literacy, Harvard 1989), per citare solo il più noto fra i numerosi studi dedicati all'argomento, ha avuto il merito di porre al centro dell'attenzione. È appena il caso di osservare come di nuovo si tratti di temi che l'esperienza contemporanea propone allo specialista del mondo antico soprattutto in contesti, quale l'americano, ove problemi come quello dell'integrazione delle minoranze, anche a livello linguistico, sono già da tempo molto forti. In proposito sono particolarmente felici alcune osservazioni fatte da M.M. in una breve nota non ripubblicata in questa raccolta ( A Note on Sermo humilis, «JThS» 17, 1966), ove si pone con chiarezza la questione di come i notabili ecclesiastici nel IV secolo comunicassero con la massa dei loro seguaci. A partire da Costantino uomini di eccezionale livello culturale e intellettuale si trovarono al vertice della chiesa con l'urgenza di farsi ascoltare anche dai ceti più bassi. Il discorso cristiano, conquistato il posto che gli competeva nell'Impero (cfr. Av. Cameron, Christianity and the Rhetoric of Empire: the Development of Christian Discourse, Berkeley 1991) rientra ormai anch'esso nel quadro di un potere che deve dare compimento alle proprie decisioni. Conoscere il punico, o il siriaco, come ben ci mostrano Agostino e Gerolamo, era indispensabile per i vescovi che volessero affrontare con successo una dissidenza, anche forte come quella donatista, ma a base localistica.

M.M. ha considerazioni piuttosto severe sull'atteggiamento di sfiducia dell'intelletto nel IV secolo che lo portano a differenziarsi dalla posizione di P. Brown che, soprattutto nel Cult of the Saints, sosteneva che andava rifiutato il modello che presuppone l'esistenza di una religiosità popolare e una di élite nel IV secolo (Distrust of the mind in the IV century, pp. 117-129). Si tratterebbe, al contrario, della disponibilità dei ceti superiori ai richiami, o alle ingiunzioni, che imponevano di aderire alla fede delle masse: venerazioni dei santi, culto delle reliquie, accettazione dei miracoli implicavano quanto meno una messa tra parentesi della razionalità come risultato di un'educazione tradizionale. Ma mentre P.Brown è a suo agio tra stiliti e anacoreti, M.M. non sembra nutrire per i monaci molta più simpatia di quanta non ne nutrisse un pagano vecchio stampo come Libanio. Il suo Costantino è in fondo il campione di un mondo in cui "superstition blacked out the clearer lights or religion and the fears of the masses took hold on those who passed for educated and enlightened" (p. 114).

L'alfabetizzazione o, per meglio dire, la cultura ha nel Tardo Impero implicazioni molto particolari che vanno registrate tra i 'cambiamenti' più significativi di quest'epoca. Essere istruiti non è solo un obbligo per dir così sociale (parlando a un pubblico elevato s. Giovanni Crisostomo dà per scontato che tutti i suoi ascoltatori si preoccupassero dell'istruzione dei figli) così che il rozzo Galerio viene bollato con epiteti sprezzanti che chiamano in causa le sue origini quasi fosse un'anomalia indegna dei tempi (mentre presuppone probabilmente una polemica nei confronti dell'ascesa di una nuova aristocrazia di militari barbari).

La cultura è una necessità ineludibile per quanti desiderino una posizione migliore ed è una delle vie maestre di mobilità sociale. Esempi cospicui rendono chiaro quali potessero essere i benefici di un'istruzione riuscita. Ad un poeta gallico, Ausonio, e ai suoi parenti stretti riuscì addirittura, attorno al 380, di monopolizzare le magistrature più importanti della parte occidentale dell'Impero. E le stesse Confessioni di Sant'Agostino possono valere, almeno nella prima parte, come un documento di singolare interesse proprio perché storia dell'ambizioso desiderio di carriera nutrito dalla famiglia di un decurione di una cittadina della Numidia interna: il suo impegno è indirizzato a far sì che il proprio promettente figliolo possa accedere ai livelli di istruzione superiore nella speranza di una bella carriera nell'amministrazione imperiale (cfr. Cl. Lepelley, Un aspect de la conversion d'Augustin: la rupture avec ses ambitions sociales et politiques, «Bull. de Litt. Eccl.»88, 1987, pp. 229-246).

6. Mutamenti nelle forme di comunicazione

M.M. ha una felice sensibilità nel cogliere anche i mutamenti nel linguaggio ivi compreso quello artistico (esso acquista valenze del tutto nuove già con l'instaurazione del potere augusteo: cfr. P.Zanker, Augustus und die Macht der Bilder, München 1987 e, in merito, E.Gabba, «RSI» 102, 1990, pp. 892-898). Il Tardo Impero è tradizionalmente visto come l'epoca del costituirsi di un notevole apparato burocratico. In questo settore i problemi di comunicazione, nel senso di semplice comprensione, dovevano essere particolarmente gravi: la gente si sarà affannata tra contratti, leggi e così via senza essere sicura di capire quel che faceva e la mancanza di una terminologia tecnica suggerisce un'ampia possibilità di fraintendimento. La lingua rispecchia puntualmente, con termini astrusi e barbarismi di conio incerto, il moltiplicarsi degli uffici e delle funzioni.

E non solo: lo stesso diffondersi della corruzione provoca un arricchimento del lessico (Roman Bureaucratese, pp. 67-77). Il commercio di cariche e di promozioni richiede nuovi termini e termini ben consolidati nell'uso, come suffragium, acquistano valori semantici differenti. La cosa può consolare chi ha conosciuto l'affermarsi di locuzioni di per sé impossibili come "dazione ambientale". Ma come c'è una psicologia del comportamento di massa ci può essere anche una psicologia del funzionario e del suo modo di esprimersi. Si può pensare che il burocrate sia una figura universale: quello tardoimperiale, consapevole della propria cultura e di aver investito molto per far carriera, godeva il privilegio dei grandi poteri rivendicati dal governo e di potersi considerare il rappresentante del rappresentante di Dio.

Muta la lingua dell'amministrazione, ma muta anche quella dell'arte. La dialettica tra ceti superiori e inferiori della società, uno dei temi-chiave di questi saggi, ha in tale ambito un riscontro particolare (Some Pictures in Ammianus Marcellinus: pp. 78- 106). C'è un mutamento di gusto condiviso a tutti i livelli. I committenti di ritratti vogliono che sia sottolineata la loro importanza e i dipinti, i rilievi, i mosaici danno enfasi a particolari degli abiti a spese della forma. M.M. ricorre anche in questo caso alla psicologia per giustificare il valore attribuito al potere quasi soprannaturale presupposto dietro una posa, a un abito, o a un'espressione. Insomma si voleva impressionare. Le metafore di Ammiano Marcellino, con il suo gusto per le immagini forti tratte dal mondo animale e per i paragoni di persone con bestie esotiche, sembrano trasferire su un piano letterario le scene di vita urbana popolate da insegne e stendardi con raffigurazioni assai appariscenti e coinvolgenti. Tutto questo naturalmente non è nuovo in assoluto, ma la novità è rappresentata dall'enfasi che esso riceve che è non classica.

7. Conclusione. Possibilità di una storia dell'irrazionale

Il punto è che quando si parla di mentalità e di gusto ci si deve confrontare anche con quanto non è positivamente documentabile. M.M. ha ampio riconoscimento per quanto fatto da P.Veyne per arricchire la storia antica con una seria attenzione per l'irrazionale. E spesso, leggendo queste pagine, sembra di ritrovare una sintonia di approccio con quella dello storico francese. Certamente ci sono modi diversi, ed ugualmente seri, di studiare l'evergetismo. I dati statistici, raccolti ad esempio da Duncan- Jones (The Economy of the Roman Empire. Quantitative Studies, Cambridge 1985, 2a ed., e Structure and Scale in the Roman Economy, Cambridge 1990) ci iluminano sul livello di ricchezza di una determinata regione. M.M. ha considerazioni molto scettiche a proposito delle motivazioni dell'élite romana non nascondendo la sua insoddisfazione per le quantificazioni. La documentazione, scrive, è "irrational".

La questione, evidentemente, diventa a questo punto delicata e di metodo, cioè sul se e sul come si possa fare seriamente storia dell'irrazionale, ovvero fino a che punto ci si possa affidare della psicologia. Con il problema in più che ci si dovrebbe intendere sul significato più o meno ristretto da dare alla parola "irrazionale". Vero è che anche nel caso delle motivazioni dell'élite romana in età imperiale queste sono rese intelligibili solo se confrontate con le aspettative 'dal basso'. Una competizione rovinosa non riguarda solo i protagonisti in gara tra loro ma anche i beneficiari, il sentimento di quella folla che sapeva manifestare con forza le proprie emozioni e le proprie preferenze. Allora nella continuità e nella stabilità, per diversi secoli nell'Impero romano, delle strutture fondamentali, con il perdurare del ritmo della vita urbana classica fino alla vigilia delle invasioni barbariche, i cambiamenti della mentalità, quelli che appunto non si possono quantificare, sono forse i sintomi profondi delle trasformazioni in atto. In una società rigorosamente verticistica tutto sembra concorrere a escludere la massa della popolazione dalla possibilità di far sentire la propria voce. Ma le occasioni di rivincita sono spesso inaspettate. M.M. ci ha rivelato con questo libro un altro mondo al di là di quello che eravamo soliti trovare nelle nostre fonti.

[*] Ho discusso più brevemente di questo libro in «Atene e Roma» n.s. 37 (1992), pp. 120-122. Si riproduce qui, con leggere modifiche, quanto da me già pubblicato su «Rivista Storica Italiana» CVI (1994), pp. 393-402. Ringrazio la Redazione della Rivista per avere autorizzato la riproduzione in forma elettronica.


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Last technical revision August, 31, 1995.

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