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Sangue sulla scena. Un precetto oraziano (A. P. 185) e la Medea di Seneca [*]

di GIANPIERO ROSATI (Udine)



«Among Latin poets few give more evidence than Seneca of having been shaped by earlier literature»[1]: un'affermazione che, se ha valore generale per la pratica letteraria senecana, per la sua cifra di poeta drammatico erede e beneficiario di una tradizione che si estende dal teatro attico fino alla poesia latina augustea, non meno valida risulta in un altro senso, e cioè nel rilevare una consapevolezza letteraria che la scrittura poetica senecana ama dichiarare, anzi talvolta esibire di fronte al pubblico dei suoi lettori.

Un caso interessante di questa consapevolezza a me pare quello che qui vorrei segnalare in uno dei suoi drammi più noti, la Medea; un'opera, cioè, il cui soggetto non solo aveva incontrato il favore di numerosi autori del teatro antico sia greco che latino (fino alla celebrata, e per noi perduta, tragedia ovidiana), ma che doveva anche aver costituito argomento di accesa discussione, soprattutto per la singolare audacia di un tema come quello dell'infanticidio, fra gli antichi critici e teorici di teatro. Ne resta traccia vistosa, ad es., in un testo principe della critica letteraria (o meglio, com'è noto, più specificamente teatrale) antica quale l'Ars poetica di Orazio: nel quadro di una considerazione sull'opportunità di privilegiare, rispetto alla narrazione, la rappresentazione diretta degli eventi sulla scena (essendo gli occhi più immediatamente percettivi delle orecchie), Orazio si sofferma su ciò che dalla scena deve essere invece interdetto, ed elenca una serie di azioni che costituiscono il momento culminante, per intensità drammatica e per pregnanza simbolica, di alcuni celebri miti del repertorio tragico. Azioni spettacolari per la cruda mostruosità o per l'assurdità dell'invenzione fantastica, e comunque contrarie al decorum, a quella norma di misura e proprietà cui il buon poeta scenico dovrà sempre ispirarsi[2] (vv.179-188):

Aut agitur res in scaenis aut acta refertur.
Segnius irritant animos demissa per aurem,
quam quae sunt oculis subiecta fidelibus et quae
ipse sibi tradit spectator. Non tamen intus
digna geri promes in scaenam, multaque tolles
ex oculis quae mox narret facundia praesens:
ne pueros coram populo Medea trucidet,
aut humana palam coquat exta nefarius Atreus,
aut in avem Procne vertatur, Cadmus in anguem.
Quodcumque ostendis mihi sic, incredulus odi .

La prima delle atrocità che il buon poeta scenico avrà cura di tener lontane dagli occhi degli spettatori, affidandone invece il racconto (come a un filtro capace di attenuarne la carica e l'impatto emozionale) a uno dei personaggi, secondo quella tecnica del ricorso all'ánghelos così comune nella tragedia greca, è appunto l'infanticidio da parte di Medea: l'assassinio consapevole (diversamente cioè da un altro caso simile, quello di Ino, che agisce in preda alla follia) [3] e quindi ancora più atroce, di una madre sui propri figli innocenti, lo scelus inaudito che a più riprese Medea minacciosamente annuncia nel procedere dell'azione drammatica, facendo crescere il senso di attesa angosciosa negli spettatori (cfr. Eur., Med. 37; 92 ss.; 791 ss.; 1013 s.)[4].

È ipotesi oggi generalmente condivisa che sia stato Euripide il primo ad attribuire a Medea l'uccisione dei propri figli, facendone «für alle Zeit zum Typus der Valandinne […], an die selbst Lady Macbeth nicht reichen kann»[5]: innovazione che dovette sconvolgere l'opinione pubblica ateniese, che assegnò al poeta soltanto il terzo premio, ed ebbe larghissimo influsso anche nelle arti figurative, dove la scena dell'infanticidio diventa presto quella privilegiata a riassumere e simboleggiare, per la sua enormità, l'intera vicenda (così da dar luogo all'antonomasia che fa di Medea la nece natorum sanguinulenta parens, come in Ovidio, Ars am. 1, 336). Nonostante l'atrocità del soggetto, Euripide non si spingeva tuttavia fino a rappresentare davanti agli occhi degli spettatori l'assassinio dei bambini: esso veniva rappresentato indirettamente, mentre si svolgeva fuori scena, attraverso le loro voci terrorizzate che giungevano da dietro le quinte e attraverso l'inorridita reazione del coro (vv.1271 ss.). Se poi, nella realtà della prassi teatrale post-euripidea del soggetto di Medea, l'infanticidio sia stato talvolta effettivamente rappresentato coram populo, e se quindi il precetto oraziano si riferisca indirettamente a casi concreti di rappresentazione scenica dell'infanticidio, o se invece consideri l'ipotesi in via puramente teorica, approvando una prassi generalizzata di interdizione dell'assassinio dalla scena, noi non possiamo sapere. Certo è che proprio l'impressione esercitata dal dramma euripideo avrà fortemente contribuito ad alimentare il dibattito sull'opportunità o no di rappresentare in scena azioni caratterizzate da mostruosa crudezza come appunto l'infanticidio, tali da colpire violentemente la sensibilità degli spettatori: dibattito di cui resta testimonianza negli scolî omerici e sofoclei segnalati, fra gli altri, dal Brink (Schol. A, aHom. Il. 6,58; e a Soph. Ai. 815)[6] e nella cui tradizione il passo oraziano va collocato[7].

Quanto poi tale dibattito abbia interferito con la realtà della prassi scenica, sarebbe interessante sapere; per ciò che riguarda le Medee post-euripidee a noi note, sappiamo solo che quella enniana probabilmente evitava, sulla scia di Euripide (vv.1251 ss.), di rappresentare l'uccisione sulla scena[8]. Interessante sarebbe, ad esempio, sapere quale soluzione adottasse Ovidio, della cui celebrata Medea (secondo il giudizio di Tacito, Dial. 12, 6 l'esempio più illustre, con il Tieste di Vario, del teatro d'età augustea) non ci restano — come si sa — più di un paio di versi isolati. Che Orazio possa far riferimento all'unica tragedia ovidiana la cronologia probabilmente non lo esclude[9]; ma che il giovane poeta elegiaco non arrivasse all'audacia di mettere l'infanticidio davanti agli occhi degli spettatori credo si possa indirettamente ricavare dal giudizio complessivo sull'opera — notoriamente molto positivo — di un critico come Quintiliano (10, 1, 98 Ovidii Medea videtur mihi ostendere, quantum ille vir praestare potuerit, si ingenio suo imperare quam indulgere maluisset). Critico altrove severo con Ovidio[10], e che verosimilmente non sarebbe stato in questo caso così elogiativo se il poeta avesse violato in maniera tanto vistosa quel criterio di decorum che in quegli stessi anni sarebbe stato fissato nell'Ars oraziana, opera cui Quintiliano guarda come a un fondamento della critica estetica e letteraria[11].

La tragedia senecana, invece, com'è ben noto, sceglie di rappresentare sulla scena l'uccisione, ignorando il precetto enunciato nell'Ars oraziana. Questo è quanto gli studiosi solitamente si limitano ad osservare[12]: ma ciò, a me sembra, è riduttivo rispetto a un atteggiamento come quello di Seneca che, più che semplicemente ignorare, parrebbe piuttosto richiamare il monito oraziano per rifiutarlo, per prendere apertamente posizione contro di esso[13]. Ma vediamo il testo senecano. Dopo aver ucciso il primo dei figli (victima manes tuos / placamus ista, 970 s.), al momento di salire sul tetto del palazzo per sfuggire all'inseguimento di Giasone e delle sue guardie che la incalzano, Medea trascina con sé l'altro figlio (perge tu mecum comes, 974), oltre al cadavere del primo, e così afferma prima di completare il suo delitto (976 s.):

Nunc hoc age, anime: non in occulto tibi est
perdenda virtus; approba populo manum.

Il richiamo esplicito all'azione da compiere non in occulto, cioè l'intenzione di contravvenire a quella che, implicitamente, la negazione parrebbe presupporre come prassi consueta, e al populus come destinatario — anzi, quasi beneficiario — dello 'spettacolo' di cui la sua virtus dovrà dar prova[14], sembra non solo dichiarare un proposito da mettere in atto ora, nella realtà scenica, ma prendere apertamente posizione contro un luogo comune critico quale quello oraziano. Il che sembra ancora più rilevante se si tiene conto dell'atteggiamento generale di accettazione da parte di Seneca, nelle sue scelte di poeta scenico, della precettistica dell'Ars sulla poesia drammatica[15], oppure — per restare al precetto sulle atrocità da bandire dalla scena — il diverso atteggiamento, conforme appunto alla lettera di quel precetto, nel caso del misfatto di Atreo rappresentato nel Thyestes[16]. L'uccisione del figlio coram populo, in violazione di quella norma, viene rivendicata come prova estrema di virtus da non nascondere agli occhi degli spettatori: alle ragioni estetiche, di decorum, che evidentemente sono alla base di quel precetto, vengono anteposte quelle di efficacia drammatica (in cui larga parte hanno gli effetti di Pathetisierung) e di coerenza nella caratterizzazione di un personaggio 'estremo' come Medea[17].

Nei due versi sopra citati sembra insomma potersi cogliere una valenza metateatrale: in un testo come quello tragico — privo di uno spazio istituzionalmente delegato a riflessioni di carattere critico-letterario — le parole di un personaggio si aprono ad accogliere considerazioni di quella natura, ad attivare un dialogo con il destinatario (lettore o spettatore che sia), secondo una modalità che pare tutt'altro che inconsueta alla prassi della scrittura tragica senecana[18]. Un'ulteriore conferma in questo senso sembra venire da un altro passo della stessa Medea, nel quale il poeta fa riferimento a un'altra delle convenzioni sceniche usuali in tale soggetto, e cioè la fuga finale dell'eroina sul carro del Sole suo antenato. Il ricorso alla machina per la fuga di Medea è appunto usuale, anzi è indicato spesso come l'esempio più tipico, direi antonomastico, di questa soluzione teatrale, ma il suo impiego va notoriamente incontro a critiche severe proprio per il carattere artificiale, inverosimile del procedimento, potenzialmente distruttivo della coerenza drammatica dell'opera: lo attesta già un noto passo di Aristotele (Poet. 15, 1454 b 1 s.), le cui limitazioni saranno ribadite dallo stesso Orazio (Ars 191 s.)[19], e alla machinerie finale del dramma di Medea si riferisce con tutta probabilità un frammento di Lucilio (587 M. = 604 K.)[20] polemico contro le incredibili invenzioni dei poeti tragici: nisi portenta anguisque volucris et pinnatos scribitis. Un dramma di Pacuvio, il Medus, con la scena della fuga di Medea, era anzi frequentemente citato proprio come esempio tipico di simili favolose escogitazioni, come attesta fra gli altri Cicerone (Inv. 1,19,27): fabula est in qua nec verae nec verisimiles res continentur; cuiusmodi est: 'Angues ingentes alites, iuncto iugo' (è il frg. 387 R. = 260 D'Anna)[21].

Ora, al momento di fuggire da Corinto, sul carro del Sole, così la Medea senecana apostrofa Giasone:

Lumina huc tumida alleva,
ingrate Iason. Coniugem agnoscis tuam?
Sic fugere soleo. Patuit in caelum via:
squamosa gemini colla serpentis iugo
summissa praebent (1020-1024)

L'invito rivolto a Giasone perché 'riconosca' la sua sposa presuppone ovviamente un modello, un'immagine consueta e familiare di Medea in fuga (sic fugere soleo). Non si tratta, evidentemente, delle precedenti situazioni di fuga che l'eroina ha dovuto affrontare, per sottrarsi ogni volta alla punizione dei vari delitti commessi a vantaggio di Giasone, condannandosi così a seguirne la sorte (il motivo cioè dei vv.447 ss., nel colloquio con lo sposo dopo l'ingiunzione dell'esilio: fugimus, Iason: fugimus — hoc non est novum / mutare sedes: causa fugiendi nova est: / pro te solebam fugere); il quadro che descrive la sua partenza, sul carro celeste aggiogato ai serpenti, rinvia chiaramente alla fuga finale di Medea dopo l'uccisione dei figli, all'immagine che è familiare allo spettatore del dramma euripideo e di quelli su di esso modellati[22]. È quindi a lui, al destinatario del testo senecano e alla sua competenza scenica, che viene rivolto l'invito (che suona come una notazione critico-teatrale) ad agnoscere appunto quell'immagine, il modello presupposto dalla situazione in cui l'eroina si trova.

Stupirà il fatto che, fino ad ora, pur parlando di una presa di posizione da parte di Seneca su una questione di prassi scenica, non si sia fatto cenno al problema capitale del teatro senecano, quello relativo alla sua destinazione per la scena o, come oggi si tende per lo più a credere, per la lettura o la recitazione. Ovviamente il problema, lungamente dibattuto e tuttora non risolto (né forse risolvibile in termini netti)[23], è troppo complesso per esser discusso in questa sede e anche per esser prospettato in termini diversi alla luce del passo qui analizzato. Il richiamo in chiave polemica, o meglio il rifiuto, della norma oraziana non comporta automaticamente conseguenze dirette sulla prassi scenica di Seneca, implicando cioè una rappresentazione reale della sua Medea: è noto anzi che proprio nei suoi frequenti richiami alla scena si è voluta vedere la spia di una assenza della scena stessa (come se il testo dovesse fornire allo spettatore dei sussidi che gli permettano di immaginare quel che egli non vede)[24]; ma sarebbe d'altra parte sbrigativamente riduttivo anche l'atteggiamento di chi, dato per acquisito che le tragedie di Seneca siano «Lese- und Rezitationsdramen», volesse ritenere sostanzialmente irrilevanti, in quanto senza conseguenze sulla sua prassi teatrale, notazioni sceniche come la nostra[25].

Che fosse o no effettivamente messo in scena, il teatro senecano fa sì che il suo destinatario, anche se si tratta di semplice lettore, proietti una sorta di Inszenierung mentale, interiore: sono cioè testi che si mettono in scena anche se li si legge soltanto. La sua 'rappresentabilità' è fra i tratti che più caratterizzano il teatro senecano, il quale denuncia continuamente, nei modi più vari, la consapevolezza della gestione dello spazio scenico, e ama spesso riprodurre al suo interno, nei rapporti fra i personaggi, i ruoli della scena: si veda ad es., sempre nella Medea, come prima di portare a compimento l'infanticidio la protagonista affermi la necessità che Giasone funga da spettatore per conferire pienezza di senso al suo atroce gesto: derat hoc unum mihi, / spectator iste (992 s.)[26]. È a questo carattere autoriflessivo[27], alla tendenza del teatro senecano a considerare la propria natura teatrale, cioè alla sua 'metateatralità', che vanno ricondotte notazioni come quelle qui sopra segnalate.

[*] Il presente lavoro viene pubblicato, con qualche lieve modifica, in un volume miscellaneo di studi in onore di Giovanni Marzi (Cremona).

[1]R. J. Tarrant, Senecan Drama and its Antecedents, in «Harv. St. Class. Phil.» 82, 1978, p. 214.

[2]Da vedere in proposito le preziose osservazioni di C. O. Brink (Horace on Poetry. The 'Ars poetica', Cambridge 1971), che opportunamente distingue il precetto oraziano dall'analogo rifiuto da parte di Aristotele (Poet. 14, 1453 b 8-10) «of 'fearsomeness by way of spectacle', tò phoberòn dià tês ópseos, and, even more, 'the monstrous', tò teratôdes […]. But the motive differs. Aristotle rejects them because they do not provide the pleasure akin to tragedy, H. because of a sense of fitness» (pp. 246 s.; vedi anche pp. 244 s. e 491 s.).

[3]La consapevolezza di Medea viene notata da Aristotele, Poet. 14, 1453 b 28 s. (che trova preferibile, perché tragicamente efficace senza essere tuttavia ripugnante, il personaggio che compie un'azione tremenda senza sapere di compierla); ma il confronto con Ino (la quale uccide i suoi figli perché impazzita per opera di Era), che indirettamente accentua l'orrore e l'enormità dell'azione di Medea, era attivato nella stessa scena euripidea, attraverso le parole del coro (vv. 1284 ss.). E una differenza netta fra i tratti peculiari del carattere delle due eroine è marcata anche in un verso della stessa Ars oraziana: sit Medea ferox invictaque, flebilis Ino (123).

[4]Molto più insistito il motivo in Seneca cfr. ad es. vv. 45 s. effera ignota horrida / tremenda caelo pariter ac terris mala; 50; 127 ss.; 395 magnum aliquid instat, efferum immane impium; 423 s.; 566 s. etc.

[5]Così Wilamowitz (in «Hermes» 15, 1880, p. 487 = Kleine Schriften, Bd. II, Berlin 1935, p. 23), che avanza per primo l'ipotesi; ampia discussione del problema, con importanti precisazioni, in L. Séchan, La légende de Médée, in «Rev. Ét. Gr.» 40, 1927, pp. 251 ss.

[6]Il Brink opportunamente marca anche le differenze da analoghe osservazioni di Aristotele (Poet. 14, 1453 b 1-11 e 11, 1452 b 11-13): «In the tradition on which H. has drawn, Aristotle's argument has been moved out of the contest of the Poetics to another; Aristotle was concerned with the effect of the plot, the Horatian tradition, it seems, with the permissibility of horror on the stage» ( op. cit., pp. 244 s.). Sulla base di Philostr., Vita Ap. 6, 11, p. 113, osserva il Rostagni, sembrerebbe doversi dedurre che lo scrupolo di evitare azioni cruente sulla scena venisse fatto risalire a Eschilo.

[7]Un implicito richiamo da parte di Orazio non solo al realismo romano, ma anche allo spettacolare impiego dei mezzi scenici, e in generale alla forte suggestione degli elementi visivi, nel teatro romano ipotizza G. Aricò, L'Ars poetica di Orazio e la tragedia romana arcaica, in «Quad. cult. tradiz. class.» 1, 1983, pp. 88 s.

[8]Cfr. Enn. Trag. vv. 234-236 Joc. I versi enniani, come osserva Jocelyn (p. 369), sono una ripresa della preghiera che il coro euripideo rivolge alla Terra e al Sole quando Medea lascia la scena per uccidere, dietro le quinte, i figli (1251 ss.), e probabilmente riflettono una situazione analoga: così anche Brink (p. 247: «Enn. tr. 234-6 […] seems to imply that the murder of the children was not shown on the stage»). Un margine d'incertezza che la scena si svolgesse come in Euripide potrà anche sussistere, ma non so davvero in base a quali argomenti A. Arcellaschi, Médée dans le théâtre latin d'Ennius à Sénèque, Rome 1990, p. 67 e n. 122, possa affermare che Ennio metteva in scena l'infanticidio da parte di Medea davanti agli occhi di Giasone («Jason, revenu précipitamment du palais royal, assiste à la scène») e che il precetto oraziano costituisce «une invitation à ne pas renouveler l'exploit d'Ennius».

[9]Se cioè si accetta per l'Ars oraziana una datazione attorno al 10 a.C. (cfr. ad es. O. A.W. Dilke in «Bull. Inst. Class. St.» 5, 1958, pp. 49-57; cfr. anche A. La Penna, Orazio e l'ideologia del principato, Torino 1963, pp. 158 ss. e 256; radicalmente scettico invece sulla possibilità di datare l'opera C. O. Brink, Horace on Poetry. Prolegomena to the literary Epistles, Cambridge 1963, pp. 239 ss.), e si situa la tragedia di Ovidio subito dopo la prima edizione degli Amores, nella seconda metà degli anni '10 (un panorama delle numerose proposte di datazione delle opere giovanili ovidiane dà H. Jacobson, Ovid's Heroides, Princeton 1974, pp. 311 ss., il quale propone a sua volta una data fra 12 e 8 a.C.), quindi all'incirca negli stessi anni dell'opera di Orazio.

[10]Cfr. 4, 1, 77; 10, 1, 93 e 98. Sul significato dell'accusa di lascivia ripetutamente mossa al poeta cfr. ora Rita Degl'Innocenti Pierini, Tra Ovidio e Seneca, Bologna 1990, pp. 179 e 185 ss. (con rinvii bibliografici).

[11]I rimandi quintilianei all'Ars poetica si possono vedere elencati, ad es., in appendice al VII tomo dell'edizione dell' Institutio oratoria curata da J. Cousin (per la Collection G. Budé), Paris 1980, p. 269. Si avverte fortemente la mancanza di un lavoro d'insieme sulla ricezione dell'opera oraziana nella cultura latina di età imperiale.

[12]Cfr. ad es. Brink, The 'Ars poetica' cit., p. 247: «In Seneca's (presumably recited) tragedy the question does not strictly arise [corsivo mio]; but as far as it does, Seneca did not pay attention to this Horatian rule, cf. Sen. Med. 967 ff.»; C. D. N. Costa, Seneca. Medea, Oxford 1973, p. 5 n. 4: «Seneca ignores Horace's precept…» etc.

[13]Sui rapporti, in generale, di Seneca con Orazio rinvio ovviamente (anche per ulteriori indicazioni bibliografiche) a G. Mazzoli, Seneca e la poesia, Milano 1970, pp. 233 ss. , che andrà ora integrato con la voce Seneca curata dallo stesso Mazzoli per l'Enciclopedia Oraziana.

[14]Cfr. sopra v. 161 numquam potest non esse virtuti locus.

[15]Ad es. per quanto riguarda la norma dei cinque atti (Ars 189 s.) o il numero dei personaggi (192) o gli usi metrici (come la frequenza di spondei nei trimetri giambici: 255 ss.): cfr. Brink, The 'Ars poetica' cit., pp. 250, 301 (ma sarebbe opportuna una ricerca specifica sul rapporto fra i precetti oraziani e il teatro di Seneca).

[16]Dove è effettivamente affidata alla narrazione, pur se compiaciutamente dettagliata, del nuntius sia l'uccisione dei bambini (685 ss.) che la preparazione dell'orrendo banchetto (760 ss., cioè proprio l'oraziano humana … coquat exta) così come il pasto stesso (778 ss.); solo la sua parte conclusiva, la bevanda del sangue misto a vino, è narrata dallo stesso Atreo mentre ha luogo all'interno del palazzo, le cui porte sono state appositamente fatte aprire (902 ss.). Colpisce, anche per la sua collocazione preliminare alla preparazione del misfatto, la notazione sulla 'incredibilità' di un simile gesto (O nullo scelus / credibile in aevo quodque posteritas neget, 753 s.) che richiama alla mente l'incredulus odi oraziano (v. 188).

[17]Interessante sarebbe in proposito conoscere il comportamento di Lucano, autore anche lui di una Medea che sappiamo rimasta imperfecta.

[18]Un bell'esempio di questo procedimento è quello illustrato nel Tieste da G. Picone, La fabula e il regno, Palermo 1984, sopratt. pp. 53 ss.

[19]Da vedere ancora Brink, The 'Ars poetica' cit., pp. 251 ss.

[20]L'ipotesi risale a F. Marx, C. Lucilii carminum reliquiae, vol. 2, Leipzig 1905, p. 219.

[21]Altri numerosi richiami nella nota di G. D'Anna (M.Pacuvii fragmenta, Roma 1967) ad l., p. 121. Da vedere inoltre A. La Penna, Fra teatro, poesia e politica romana, Torino 1979, pp. 97 s. e n., anche per indicazioni bibliografiche sulla documentazione nelle arti figurative. L'immagine della fuga di Medea è anche molto comune in poesia non tragica: cfr. ad es. Hor. Epod. 3, 14 serpente fugit alite; Ov. Met. 7, 398 hinc Titaniacis ablata draconibus (assai più dettagliata la descrizione ai vv. 218 ss., che si riferisce tuttavia a un altro, precedente momento della vicenda di Medea); ampia raccolta di materiale, come sempre, nel comm. di F. Bömer a Ov. Met. 7, 218 s.

[22]Sulla fortuna del motivo della fuga di Medea sul carro alato cfr. A. Lesky in RE XV 45, 28 ss. («ungezählte Erwähnungen bei griechischen und römischen Autoren […] ebenso wie die Werke der bildenden Kunst»).

[23]Si vedano ad es. le ragioni opposte da B. Walker in «Class. Philol.» 64, 1969, pp. 183-187, alla tesi sostenuta nell'impegnativo lavoro di O. Zwierlein, Die Rezitationsdramen Senecas, Meisenheim-am-Glan 1966; e da ultimo le sintetiche efficaci considerazioni di A. J. Boyle, Senecan Tragedy: Twelve Propositions, in «Ramus» 16, 1987, pp. 88 s. (con ulteriore informazione bibliografica).

[24]Cfr. ad es. Th. Birt, Was hat Seneca mit seinen Tragödien gewollt?, in «Neue Jahrbb.» 27, 1911, p. 341: «In befremdender Weise liebt es Seneca, die Vorgänge oder Dinge, die wir doch auf der Bühne selbst wahrnehmen sollten, auch noch ausführlich zu beschreiben: ein verräterisches Anzeichen dafür, daß er eben nicht für die Bühne gedichtet hat».

[25]Così, pressappoco, A. Hempelmann, Senecas Medea als eigenständiges Kunstwerk, Diss. Kiel 1960, p. 205.

[26]La sarcastica considerazione di Medea presuppone (non lo rileva il commento di Costa) il motivo dell'uccisione dei figli davanti agli occhi del padre (cfr. anche 1001 hic te vidente dabitur exitio pari): da vedere in proposito (anche sulla valenza tecnico-teatrale di spectator) la n. di S. J. Harrison (Oxford 1991) a Verg. Aen. 10, 443 cuperem ipse parens spectator adesset (detto da Turno che si accinge a uccidere Pallante). Notevole che il verso virgiliano sia ripreso nella centonaria Medea di Osidio Geta (v. 385).

[27]Una significativa esemplificazione in A. J. Boyle, art. cit., pp. 94 ss.; ma cfr. soprattutto T. F. Curley, The Nature of Senecan Drama, Roma 1986, specialmente pp. 192 ss.


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Last technical revision August, 31, 1995.

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