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Q. Giulio Ilariano e il problema della storiografia latina cristiana del IV secolo

di ITALO LANA (Torino)



Chi si propone di studiare la storiografia latina cristiana dei primi secoli[1] può pensare che il primo storico latino cristiano sia Sulpicio Severo[2], autore dei due libri di Chronica che, partendo dalla creazione del mondo, arrivano fino al primo consolato di Stilicone (400 d.C.): essi furono terminati poco dopo il 403. Prima di tale data abbiamo, di parte cristiana in Occidente, scritti di cronografia, non di storia vera e propria. Ma anche l'opera di Sulpicio Severo, considerandone attentamente la struttura e le articolazioni, appare più vicina (come vedremo) agli scritti di cronografia che non alle vere e proprie opere di storia. A fronte della relativamente ricca produzione storiografica (breviaristica, perlopiù) di parte pagana, nella quale, naturalmente, spicca l'opera di vero storico di Ammiano Marcellino, può, a prima vista, stupire quest'assenza dei cristiani. È perciò opportuno cercare di rendersi conto dei motivi del silenzio dei cristiani di Occidente[3].

Abbiamo di fronte a noi due mondi - il pagano e il cristiano - molto distanti l'uno dall'altro. Tuttavia per il modo di intendere la storiografia nel periodo a cavallo della metà del IV secolo fra i due mondi non c'è vero conflitto, perché "il cristianesimo e la Chiesa non svolgono praticamente alcun ruolo nella concezione storica degli autori o nelle opere particolari"[4] e, da parte loro, gli storici pagani, scrivendo quando gli imperatori ormai sono cristiani, non hanno alcun interesse ad affrontare tematiche che contrappongano i due mondi. Per esempio l'analisi di testi del Cronografo dell'anno 354 mostra come "le due rappresentazioni della storia [intendi: dei pagani e dei cristiani] possono ancora coesistere"[5]. Ciononostante, e volgendo lo sguardo al modo di intendere il rapporto dell'uomo con gli eventi della storia (non al modo di scrivere opere di storia), possiamo dire, mettendo a confronto pagani e cristiani e senza forzare i dati, che i pagani di quest'età sono rivolti verso il passato[6] cercando nella grandezza di esso motivi che consentano di ritrovare fiducia nel presente vacillante e per il futuro oscuro e temibile, mentre i cristiani volgono lo sguardo essenzialmente alla loro "storia" che è "storia della salvezza", puntando sul futuro - in prospettiva escatologica - con una visione che è nello stesso tempo storica e metastorica, abbracciante insieme tutto il passato dell'uomo e tutto il futuro dell'uomo.

Tutto iI passato: partendo dunque da Adamo, cioè dalla creazione dell'uomo (non ab urbe condita, come aveva fatto Tito Livio) e tutto il futuro, proiettandosi sino alla fine dei tempi e del tempo: secondo i cristiani, per l'uomo, creato da Dio, c'è stato un inizio e ci sarà una fine (la storia si svolge secondo un rectum iter, come dirà, in rude polemica con i pagani, Agostino, De civitate Dei, XII 18); nella prospettiva pagana, invece, per l'impero di Roma c'è stato un inizio ma non ci sarà mai una fine: ai Romani imperium sine fine dedi, dice Giove presso Virgilio, Eneide, 1. 279; Roma victura dum erunt homines, affermerà Ammiano Marcellino (14.6.3), a cui farà eco Rutilio Namaziano, nell'inno a Roma.

Può aiutarci a capire meglio l'atteggiamento di fondo dei cristiani una pagina del cristiano - per noi anonimo - che scrisse il Chronicon anni post Christum 334 traducendo e continuando la Cronaca di Ippolito:

Quoniamque oportet per omnia paratum esse veritatis ministrum, optimum arbitratus sum compendiosum sermonem facere ad congruam sapienciam. Opost etenim per ostensionem non vacue cogitantes sed liquidum[7] secundum veritatem historie inquirere in brevi[8] que adprehendimus, amputantes primum contenciones ignorantium[9], quae generant litem et obscurant sensum[10] ignorantium que possunt studeri (Chron. Minora, I, p. 82.11-18 Frick).

Proviamo a tradurre questo latino approssimativo:

E poiché conviene che chi è a servizio della verità [cioè il cristiano] sia preparato mediante la conoscenza di tutto, ho ritenuto che la cosa migliore sia fare un discorso abbreviato in vista di un sapere adeguato [il testo greco dice: "per rinsaldare il sapere"]. Bisogna pertanto, pensando non vacuamente per mettersi in mostra, ma in maniera chiara, ricercare in breve secondo la verità della storia le cose che abbiamo appreso, tagliando via prima di tutto le discussioni degli ignoranti, le quali generano liti e rendono difficile, a chi non lo conosce, il senso delle cose che si possono studiare.

In questo programma culturale notiamo due aspetti: il bisogno della brevità (compendiosus sermo; in brevi) e la esclusione di tutto ciò che è problematico. Sotto quest'aspetto l'anonimo cristiano assume di fronte alla cultura in generale lo stesso atteggiamento e comportamento diffuso presso i pagani, specialmente tra gli autori di breviari e tra i grammatici. Subito dopo la pagina che abbiamo letto l'anonimo precisa che c'è tutto un altro campo storico nel quale il veritatis minister dev'essere competente in maniera accurata e di esso egli informa in maniera particolareggiata fornendo l'elenco delle cose da sapere (ivi, pp. 82.19-84.4). Questo riguarda la "storia sacra", la storia dell'umanità e del popolo eletto secondo i testi dell'Antico e del Nuovo Testamento (qui autem diligenter volunt et studiose historiam discere, cognoscant gentium divisiones, et patrum genealogiam, et temporum peregrinationes, et civitatum conventiones, et iudicum dispositiones, et regum tempora et prophetarum; etc. etc.), fino ad apprendere la successione degli anni (la cronologia) "dalla creazione del mondo fino ad oggi" (a constitutione mundi usque in hodiernum diem).

Questo testo mette bene in evidenza i punti di contatto della mentalità dei pagani e dei cristiani e, anche, la specificità dei cristiani nei riguardi della storia, distinta in storia profana (per la quale basta, al cristiano, possedere pochi dati e nozioni essenziali: ecco perché si scrivono cronografie) e storia sacra (della quale il cristiano deve avere una conoscenza accurata, attinta alla Sacra Scrittura).

Posta questa premessa, possiamo renderci conto della natura dei Chronica di Sulpicio Severo. Essi sono, non un'opera di storia come la intendiamo noi [11], ma una guida e un'introduzione alla lettura della Sacra Scrittura perché il primo libro illustra la storia ebraica sino alla cattività babilonese e il secondo ancora le vicende ebraiche sino alla nascita di Cristo e poi le persecuzioni dei cristiani nell'impero, il riconoscimento della libertà di religione, le difficoltà e le lotte dentro la Chiesa, tra le varie, contrastanti, posizioni dottrinali e pragmatiche. E' singolare, ma comprensibile, il fatto che Sulpicio Severo escluda del tutto dalla sua Cronaca la vita di Cristo e l'età apostolica (2.27.3; cf.1.1.3): a tale riguardo egli invita i lettori a rivolgersi direttamente ai Vangeli e agli Atti degli Apostoli (i suoi lettori conoscevano bene il Nuovo Testamento; la sua Cronaca non si rivolge a lettori pagani).

E' da dire che l'interesse di Sulpicio stesso è rivolto precipuamente alla Sacra Scrittura: esso si estende, oltreché per tutto il primo libro, anche per la prima metà del secondo. La storia profana o, per dire meglio, globale dell'umanità non è presa in considerazione da Sulpicio, che tra l'altro si serve sí, anche di varie fonti pagane (Tacito, Pompeo Trogo nell'epitome di Giustino, Cornelio Nepote; e mostra anche di conoscere Sallustio e Velleio Patercolo), ma esse non vanno oltre gli inizi dell'età imperiale (non è certo che utilizzi l'Epitome de Caesaribus)[12]. Non sembra dunque avere alcun rapporto con la storiografia pagana coeva, mentre è frequente in lui l'uso dei Chronica di autori cristiani, specialmente di quello di Eusebio nella traduzione e prolungamento di Girolamo. Delle tendenze letterarie della sua età condivide solo la preoccupazione per la brevitas: il suo modello formale e stilistico preferito è Sallustio. Ciò che a lui propriamente importa è la distinctio temporum, cioè la collocazione cronologica esatta degli avvenimenti: questa caratteristica era già propria del Cronografo dell'anno 334.

In questo senso egli rappresenta, per i suoi tempi, il punto di arrivo degli studi cristiani di cronografia che, attraverso le Chronographiai di Sesto Giulio Africano, posteriori al 221 d.C., e le Cronache, più o meno coeve, di Ippolito, culminano nella Cronaca di Eusebio e nelle sue traduzioni, tra cui quella latina di San Girolamo, che la estese sino al 378. Carattere di summa e di riepilogo delle ricerche cronografiche ha il cosiddetto Cronografo dell'anno 354, nella cui raccolta di documenti è inclusa anche la cronaca universale[13].

Il grande sviluppo della cronografia da parte cristiana risponde anche ad un'esigenza prima di tutto apologetica, per mostrare, a chi si convertiva, l'antichità della fede cristiana con i suoi presupposti ebraici, che risalivano fino alla creazione del mondo e dell'uomo, e per fornire ai cristiani, alla loro "sapienza" portatrice di "verità", uno strumento inoppugnabile con cui contrapporsi ai pagani, che accusavano, come una debolezza del cristianesimo, la sua novità. L'altra domanda, a cui risponde la cronografia cristiana, riguarda l'attesa escatologica della fine del mondo e il bisogno di sapere quando esattamente questo nostro mondo sarebbe finito. Con il presupposto della settimana cosmica e con l'ausilio dei calcoli cronografici, anche a tale domanda veniva fornita risposta.

Nella prospettiva dell'interesse del cristiano che, nei riguardi della storia, si sposta dalla riflessione sul passato proiettandosi verso il futuro, la storia diventa storia della salvezza: della salvezza eterna di tutti gli uomini e di ciascun uomo. Perciò la "storia" secondo i cristiani di questi primi secoli è volta (paradossalmente) tanto al passato quanto al futuro.

Dobbiamo affrontare la fatica, non lieve, per capire quest'atteggiamento, di spogliarci per un poco, ma totalmente, della nostra visione della storia e renderci conto che la vicenda dell'umanità è, per questi cristiani, la vicenda, in chiave di salvezza eterna, di tutta l'umanità e non solo dalla creazione del mondo e dell'uomo fino ai tempi in cui vive chi scrive, ma fino alla fine del mondo e alla scomparsa dell'uomo dalla Terra. Una visione della storia non più soltanto come storia delle res gestae ma anche come storia delle res quae gerentur.

Come fosse possibile che questo avvenisse possiamo cercare di capire prendendo in considerazione un breve testo, esemplare sotto questo aspetto, di Q. Giulio Ilariano, scritto sul finire del IV secolo, e precisamente nell'anno 397.

Ilariano fu autore di due operette (pervenuteci entrambe): il De cursu temporum (intitolato anche De mundi duratione), che prenderemo in esame, e il De ratione Paschae et mensis, contenente teorie e ricostruzioni del calcolo pasquale, composto anteriormente al De cursu temporum (come attesta l'autore stesso nel de cursu temp., 156.13-20 Frick). Si può dire che Ilariano, forse un Africano dell'Africa proconsolare, non ha suscitato interesse fra gli studiosi. Basti ricordare che nella Geschichte der römischen Litteratur di Schanz-Hosius-Krüger il suo nome non compare neppure; e invano si cercherebbe il De cursu temporum nei tre ampi tomi dei Chronica minora editi dal Mommsen negli anni 1892, 1894, 1898, nei M.G.H., Auctores Antiquissimi , XIII[14]. Il nome stesso dell'autore si presenta con l'alternanza Hilarianus / Hilario[15] .

L'unico studioso che dedicò prima d'ora una qualche attenzione ad Ilariano, il Gelzer[16], non prese in considerazione l'atteggiamento di fronte alla storia di cristiani come Ilariano. Il Gelzer giudicava "grottesca" la rappresentazione apocalittica della lotta dell'Anticristo tracciata da Ilariano e tuttavia - precisava - "se prescindiamo da questi 'deliria'[17] apocalittici-chiliastici" di Ilariano, costui ci si mostra come "uno spirito libero e ardimentoso" e "nonostante la sua rozzezza non indegno del confronto con Sulpicio Severo"[18] . In realtà, queste distinzioni, a proposito di Ilariano, per cui qualche aspetto di lui meritava approvazione mentre altri andavano condannati, provano che la valutazione del Gelzer dipendeva da pre-giudizi: sulla base di un modo di concepire la storia diverso da quello di Ilariano qualcosa di lui il Gelzer accettava e qualcosa rifiutava e così si precludeva la possibilità di una comprensione globale e coerente dell'autore antico. Noi ci poniamo invece dal punto di vista di chi si propone, non di giudicare che cosa, secondo i criteri moderni, sia da approvare in Ilariano e che cosa sia da condannare, ma di capire su quali presupposti si fondasse quello "spirito libero e ardimentoso" per ricostruire e costruire la storia in quel modo e a quali risultati approdasse.

Ilariano dimostra nel suo breve scritto (19 pagine nell'edizione Frick) Sul corso dei tempi che, come la creazione si compì in sei giorni e poi nel settimo il Creatore si riposò, e poiché, come si legge nel Salmo 89 (90), 4, citato nella seconda lettera di Pietro, 3.8, "presso il Signore mille anni sono come un giorno", così gli uomini sulla Terra vivranno seimila anni (che hanno il loro parallelo nei sei giorni cosmici), poi, quando incomincerà il settimo millennio (parallelo al settimo giorno dell'opera della creazione, nel quale Dio, come si legge nel Genesi, "si riposò"), tutti i giusti risorgeranno e per mille anni vivranno il dies septimus et sabbatus aeternus et verus (172.24-173.1 Frick), mentre i malvagi, per i medesimi mille anni, vivranno in mundo cum poena (172.23). Compiuti i settemila anni, terminata cioè la settimana cosmica, tunc erit secunda resurrectio omni carni (173.20-21), che segnerà il trionfo definitivo di Dio e dei giusti che avranno creduto in Lui.

Come si vede, la storia è tutta prefigurata nella vicenda della creazione divina del mondo: sei giorni, più il settimo in cui il Creatore si riposò: il mondo durerà per ciò la settimana cosmica dei 7000 anni in tutto.

Il procedimento dimostrativo di Ilariano è, a modo suo, semplice: gli basta contare con un calcolo, a suo dire, esatto (ratione cogente, 157.10) lo scorrere degli anni dalla creazione in avanti per sapere quando - cioè in quale anno esattamente - il mondo finirà. Ascoltiamolo nelle sue dichiarazioni perentorie, espresse in un latino più o meno "barbarico":

Nunc de annorum integro numero racio vertitur, ubi non potest quis pro perfecto numero imperfectum ponere, aut ipsum perfectum posse transcendere numerum, et quod minus fuerit aut plus a perfecto numero astruere verum. (157.18-22)

"Come", poi, il mondo finirà egli lo sa pure, perché lo trova scritto neIl'Apocalisse di Giovanni. Ilariano è sostenitore convinto della visione millenaristica. Su questa base egli respinge fermamente la sapienza mondana che sostiene (dice Ilariano, sempre nel suo latino approssimativo): mundi initium finemque eius paenitus [da intendere: "con sicurezza"] a nobis scire non posse (155.18-19): gli uni pretendono che il mondo abbia ormai più di ventimila anni, altri non vogliono ammettere per il mondo né un inizio né una fine, altri ne ammettono l'inizio ma vogliono il mondo eterno. Ma questa è un'ars philosophica mundi, replica Ilariano, che mira ad ingannare (è una inanis deceptio verborum, 156.2) con sfoggio di parole e di opinioni, un'ars philosophica che rifiuta la verità preferendo, appunto, "un vuoto inganno e sfoggio di parole e congetture". Ilariano invece, rivolgendosi più volte ai destinatari dello scritto (p. es.: si permittitis, 156.7) che gli è stato espressamente richiesto (ut vultis et ut ipse promisi, 157.1-2), mostrerà, basandosi sulla divina lex (cioè sulla Sacra Scrittura), quale sia la verità (quod, annuente Domino, si permittitis, vobis simpliciter [con schiettezza] enarrabitur, 156.6-7); e si arroga, senza superbia (egli dice) ma apertamente, il merito di riuscire a fare i calcoli necessari meglio di chi, tra i cristiani, lo ha preceduto. Egli applica la ratio (il criterio) che gli consente di arrivare con il computo al numero perfetto di anni, cioè a settemila anni, quanti ne durerà complessivamente il mondo. Se altri saprà fare i computi meglio di lui, egli non se ne adonterà affatto (cita, 157.12-17, come suo riferimento al riguardo, Paolo, I Cor. , 14.30).

Non seguiremo nei particolari i suoi calcoli minuziosi. Ci limitiamo a registrare le principali scansioni temporali secondo Ilariano:

dalla creazione di Adamo al diluvio universale: 2257 anni;

dalla creazione del mondo alla liberazione degli Ebrei dalla schiavitù di Egitto: 3699 anni;

dalla creazione del mondo a quando Samuele unse re Saul: 4300 anni;

dalla creazione del mondo all'inizio della cattività degli Ebrei a Babilonia: 4814 anni;

dalla creazione del mondo alla morte di Gesù Cristo: 5530 anni (170.21-22): a fabrica mundi usque ad passionem Christi salvatoris nostri anni sunt V milia DXXX [la morte di Gesù viene infatti collocata nel 16° anno di Tiberio (170.19-20), nel 29[19]].

Perciò dalla morte di Cristo al compimento dei 6000 anni mancano 470 anni: proinde ad conclusione VI milium annorum debentur anni CCCCLXX (170.23-24):

Necesse est enim ut, quo modo filii Israhel a pollicitatione domini dei facta ad Abraham post CCCCLXX annum promissionis terram acceperunt,[20] sic etiam nos Christiani post totidem annos primam resurrectionem habebimus (170.25- 171.3)

"Di necessità", dice Ilariano: infatti, egli continua,

Populus enim Iudaicus in omnibus figuram nostram portat, "in quos fines saeculorum cucurrerunt" (Paolo, l Cor. 10.11).

Chiarisce così i suoi calcoli:

Ergo a passione domini Christi, ex quo tempore in se fide credentibus resurrectionem pollicitus est dei filius, anni compleantur necesse est CCCCLXX, ut concludatur summa VI milium annorum. Septimo et millesimo anno incipiente fide vera credentes liberabuntur e mundo: tunc enim erit resurrectio prima omnium sanctorum. De CCCC vero et LXX annis a passionem domini in consolatu Caesari et Attici die VIII Kl. Aprilis anni transierunt CCCLXVIIII. Restant itaque anni CI, ut consummentur anni VI milia (171.5-14).

Dunque dalla passione di Cristo Signore, dal quale tempo il figlio di Dio ha promesso la resurrezione per coloro che credono in lui, di necessità devono compiersi 470 anni, affinché si completi la somma dei 6000 anni. Quando incomincerà il settimo millennio, i credenti nella vera fede saranno liberati dal mondo: allora infatti ci sarà la prima risurrezione di tutti i santi. Dei 470 anni dalla passione del Signore fino al consolato di Cesario e di Attico [cioè fino al 397, quando appunto sono consoli Flavio Cesario e Nonio Attico Massimo], il giorno ottavo avanti alle calende di Aprile [cioè il 25 marzo, giorno in cui fu creato il mondo (158.21-22) e giorno della morte di Cristo[21]] sono trascorsi 369 anni[22]. Restano pertanto 101 anni per completare i 6000 anni.

Che cosa avverrà nei prossimi cento e uno anni Ilariano sa, come abbiamo già accennato, dall'Apocalisse di Giovanni. Saranno anni terribili per tutta l'umanità. Ilariano li descrive (171.14-172.24; 173.15-174.4) sul fondamento dell'Apocalisse, capp. XII e seguenti. Questo mondo finirà nell'anno 497 (contando sia l'anno di partenza sia quello di arrivo).

Il 397, l'anno in cui Ilariano scrive la sua operetta, era davvero un anno orribile, per l'Impero. E' l'anno in cui muoiono due figure eminenti della cristianità in Occidente: Ambrogio di Milano e Martino di Tours. E' l'anno in cui Alarico in Grecia con i suoi Goti devasta le regioni sacre al ricordo della civiltà dell'Ellade; in Asia e in Tracia le truppe imperiali combattono contro gli Unni invasori; in Africa il generale mauro Gildone si ribella ad Onorio e priva Roma dei rifornimenti di grano, essenziali per l'Urbe: nel tardo autunno del 397 salpano da Pisa, dopo un'allocuzione rivolta loro da Onorio, le truppe scelte mandate a domare la rivolta di Gildone in Africa. Nessuno meglio di Girolamo (epist. 60.16) ha saputo descrivere gli orrori di quel tempo e lo sgomento dei Romani:

Inorridisco ad esporre le catastrofi dei tempi nostri: son vent'anni, ed anzi di più ancora, che tra Costantinopoli e le Alpi Giulie ogni giorno si versa il sangue romano. Scizia, Tracia, Macedonia, Tessaglia, Dardania, Dacia, Epiro, Dalmazia, tutte le Pannonie sono devastate, depredate, saccheggiate dal Goto, dal Sàrmata, dal Quado, dall'Alano, dagli Unni, dai Vandali, dai Marcomanni. Quante donne, quante vergini consacrate, e persone libere e nobili hanno subìto oltraggio da queste belve! Vescovi fatti schiavi, preti uccisi, come anche membri del clero dei più diversi gradi, chiese in rovina, accanto agli altari di Cristo le lettiere dei cavalli, dissotterrate le reliquie dei màrtiri: ovunque pianto, ovunque lamenti, ed appare in infinite forme la morte [ubique luctus, ubique gemitus, et plurima mortis imago: eco di Eneide, II, 368 s.] Il mondo romano crolla (Romanus orbis ruit) ma la nostra testa superba non si piega. Quale sarà, secondo te, lo stato d'animo dei Corinzi, degli Ateniesi, dei Lacedèmoni, degli Arcadi e di tutti gli abitanti della Grecia, sotto il dominio di barbari? E non ho nominato che poche città, che furono un tempo grandi potenze (traduz. di E. Gallicet).

Nello scritto di Ilariano, però, non si trova nessun riferimento alla realtà contemporanea: il suo punto di riferimento è, come sappiamo, l'Apocalisse ed è sulla trama dell'Apocalisse che egli costruisce le sue scene. Egli "sa" che la figlia di Babilonia (filia Babylloniae), nella quale va identificata Roma (l'impero romano) sarà tolta di mezzo dai dieci re su cui regnerà il dragone dell' Apocalisse: saranno gli Anticristi tempora (172.2) in cui le forze demoniache si scateneranno. Ma alla fine dei 6000 anni - ripete Ilariano - cioè nel 497 d. C., l'Anticristo sarà ucciso, il dragone, diavolo e satana, sarà legato e chiuso nell'abisso; ci sarà la risurrezione di tutti i santi, qui sulla terra (questa diventerà l'analogo della Terra promessa per i figli di Israele), dove resteranno e vivranno mille anni. Al compimento dei 7000 anni ci sarà poi la seconda risurrezione, di tutti gli altri uomini, malvagi, che saranno giudicati e condannati secondo il giudizio giusto di Dio: e allora questo cielo e questa terra scompariranno:

Et tunc erit secunda resurrectio omni carni et iudicabuntur omnes iudicio dei iusto pro eo quod non crediderunt deo sed sibi placuerunt in iniustitiis suis. Et post haec auferetur caelum hoc et terra ista. (173.20-24)

Sarà, quello, il trionfo definitivo di Dio:

Et erit caelum novum et terra nova et utraque in perpetuitate manebunt, impii in ambustione aeterna, iusti autem cum deo in vitam aeternam. Amen. (174.1-4)

Come abbiamo potuto renderci conto percorrendo il suo scritto, in Ilariano non appare alcuna differenza nel grado della sua conoscenza del passato, del presente e del futuro: tutto è già stato scritto nella Sacra Scrittura: basta saperla leggere e fare i conteggi in maniera rigorosa (ratione cogente). Perciò egli con egual grado di certezza sa come si è svolto il passato e sa (grazie all'Apocalisse di Giovanni) come si svolgerà il futuro. Egli sa quando è incominciato il mondo e sa egualmente quando finirà. Il concetto di storia è totalmente stravolto.

Nessun riferimento esplicito agli eventi contemporanei, in Ilariano: eppure non possiamo sottrarci al pensiero che avesse ben presente la profezia, che correva tra i pagani, secondo la quale la religione cristiana sarebbe finita nel 398, cioè l'anno successivo a quello in cui Ilariano scrive.

Di questa profezia siamo informati in maniera chiara e diffusa da Agostino, De civitate Dei, XVIII 53-54. Dopo aver esposto il suo convincimento (non essere possibile all'uomo conoscere quando il mondo finirà, perché Cristo ha detto, rispondendo ad una domanda degli Apostoli, Atti degli Apostoli, 1.6-7, prima di ascendere al cielo che non compete all'uomo conoscere i tempi e i momenti che il Padre ha riservato a sé di fissare: quindi dalla Sacra Scrittura non si può ricavare la data della fine del mondo), ci informa che i pagani, interpretando un supposto oracolo greco, attribuivano all'apostolo Pietro di aver compiuto atti di magia nera comprendenti l'uccisione di un bambino di un anno (la vecchia accusa di infanticidio che, come è noto, veniva mossa dai pagani ai cristiani) per ottenere che il nome di Cristo fosse venerato nel mondo per 365 anni (tanti anni quanti erano i giorni di vita vissuti dal bambino sacrificato): poi tutto sarebbe finito.

Dunque secondo questi pagani ostili al cristianesimo la nuova religione sarebbe durata 365 anni, né uno di più né uno di meno. Osserviamo: gli anni della profezia sono 365 quanti sono i giorni dell'anno. Si ricorderà che il Salmo 89 su cui si basa Ilariano afferma che per Dio un giorno è come mille anni; invece per questi pagani un giorno è come un anno. E c'era il precedente di Roma presa dai Galli di Brenno proprio nel suo 365° anno di vita. Si veda Tito Livio, Ab urbe condita, V 54.5 (è Furio Camillo il salvatore di Roma, che parla ai suoi concittadini per convincerli a non emigrare a Veii e, invece, a ricostruire Roma distrutta dagli incendi):

trecentesimus sexagesimus quintus annus Urbis, Quirites, agitur...

Secondo Agostino i pagani ostili alla nuova religione avevano previsto la fine del cristianesimo nell'anno del consolato di Onorio e di Eutichiano, cioè proprio nel 398. Ma come può Agostino, che pone l'inizio del cristianesimo l'anno stesso della morte di Cristo (25 marzo del 29) e, più esattamente, il giorno della Pentecoste, 15 maggio dello stesso anno (lo Spirito Santo che discende sugli Apostoli e sui discepoli), cioè cinquanta giorni dopo la risurrezione del Salvatore, come può, Agostino, sostenere che i 365 anni portano al 398? E' chiaro: 29 + 365 = 394 (proprio l'anno dell'ultimo tentativo di riscossa - fallito - dei pagani con la battaglia del fiume Frigido[23]), non 398. Tuttavia Agostino dice sia che la Chiesa incominciò la sua esistenza il giorno delle idi di maggio, cioè il 15 maggio, del 29 sia che i 365 anni si compirono il 15 maggio del 398. Per quanto si intendesse poco di matematica, certo - ha osservato argutamente Jean Hubaux, - La crise de la trois cent soixante cinquième année, ne "L'Antiquité Classique", 1948, p. 350 - fino a 365 sapeva contare! L'Hubaux pensava che, senza troppo preoccuparsi di calcoli, Agostino avesse accettato per la morte di Gesù il dato cronologico comunemente ammesso (il 29), ma che il calcolo dei 365 anni fosse basato sull'altra data, che veniva pure indicata, del 33 come anno della morte del Cristo: in tal caso i conti tornano: 33 + 365 = 398.

Propongo un'altra spiegazione dei dati non coerenti di Agostino. I 365 anni dovettero farsi decorrere dall'anno in cui Pietro avrebbe compiuto il sacrificio rituale del bambino: questo poteva essere stato collocato nel 33 (quattro anni dopo la morte del Cristo; ma, come abbiamo già detto, il 33 era anche indicato come l'anno della morte di Cristo): ma Agostino per la verità non sa e comunque non ci dice in quale anno Pietro, secondo i nemici del cristianesimo, avrebbe compiuto il (supposto) rito magico cruento.

Quale che sia la spiegazione delle discordanze nel calcolo di Agostino, mi pare che debba essere in ogni caso accettata la data del 398 come data della profezia (di parte pagana) della fine del cristianesimo. Ilariano, scrivendo nel 397, un anno prima della scadenza della supposta profezia, vuole rassicurare gli amici (e tutti i lettori del suo scritto) che gli hanno chiesto di fare i calcoli della fine del mondo: la fine del mondo (è chiaro che per i cristiani la fine del cristianesimo sarebbe coincisa con la fine del mondo) non sarebbe avvenuta di lì ad un anno, ma di lì a cento e uno anni. Il calcolo (ratio) era sicuro (cogens). La sua generazione non doveva lasciarsi prendere dal panico davanti al mare di sciagure del 397: esse non erano il segno della fine del mondo imminente.

Importa anche notare che nella prospettiva di Ilariano quelli che nella concezione pagana sono i cicli (il ritorno, a tempi determinati, degli stessi uomini e degli stessi fatti: di nuovo ci sarà Socrate, di nuovo verrà condannato, di nuovo berrà la cicuta... [24] , per Ilariano sono, in forma analoga se pure non identica, i tu/poi , le figurae [25]. I 470 anni, che Abramo e i suoi discendenti vissero prima di poter entrare nella Terra promessa, prefigurano e quindi preannunziano i 470 anni che i seguaci di Cristo dovranno attendere prima che si realizzi per loro l'età del settimo millennio. La "figura" è valida non solo nelle linee generali come prefigurazione - in ciò che è avvenuto al popolo eletto prima della venuta di Cristo - di ciò che avverrà ai fedeli del Salvatore dopo la sua morte, ma anche nelle sue precise indicazioni temporali. Questo è il fondamento della ratio cogens di Ilariano.

Questo è il dato estremamente interessante, e tipico, di Ilariano: esso ci fa anche capire come la vicenda profana dell'uomo, la storia propriamente umana, venisse svuotata dai cristiani - o, più esattamente, dai cristiani che condividevano le convinzioni, le "certezze", di Ilariano - di ogni interesse. Il significato della storia era collocato altrove; e, quindi, comprendiamo anche perché la storiografia come genere letterario, la storiografia come ricerca delle cause dei fatti, come ricostruzione e interpretazione delle vicende dei popoli, non avesse sviluppo: non potesse avere sviluppo quando si ammettesse che gli avvenimenti e le loro cause erano già tutti prefigurati nella Sacra Scrittura [26] .

I cristiani di Occidente avranno la loro prima opera di storia con Orosio, autore delle Historiae adversus paganos, composte per incitamento di Agostino (praeceptis tuis parui, beatissime pater Augustine: queste le prime parole delle Storie di Orosio), cioè proprio del pensatore che si opponeva energicamente - come abbiamo visto, nel De civitate Dei, XVIII 53-54 - alle convinzioni di chi come Ilariano pensava che la storia fosse già tutta scritta, per il passato, e tutta prefigurata, per il futuro, nella Sacra Scrittura. Non a caso il primo storico cristiano, Orosio, intitola Historiae la sua opera: anche così segnando in maniera netta lo stacco da Sulpicio Severo, che intitolando Chronica la sua opera si poneva, di fatto, sulla linea degli autori cronografi (autori di Chronica ), di cui l'ultimo e più illustre esempio, nel mondo occidentale era stato Girolamo. Ma tra i Chronica di Sulpicio Severo e le Historiae di Orosio si pone la ormai avviata e in parte già scritta Citt à di Dio di Agostino, fondazione della teologia della storia[27].

[1]Per la storiografia del IV sec. d.C. possiamo ricorrere, in particolare, a: A. MOMIGLIANO, Storiografia pagana e cristiana nel sec. IV d.C., nel vol. di AA.VV., Il conflitto fra paganesimo e cristianesimo nel secolo IV, a c. di A. M., [Torino 1968] (traduz. ital. dell'ediz. originale inglese del 1963), pp. 89-110; G. ZECCHINI, La storiografia cristiana latina del IV secolo (da Lattanzio ad Orosio), in ID., Ricerche di storiografia latina tardoantica, [Roma 1993], pp. 7-28 (è il testo modificato della relazione dello stesso Zecchini pubblicata in I Cristiani e l'impero nel IV secolo, di AA.VV., a c. di G. Bonamente e A. Nestori, Macerata 1988, pp. 169-194); I. LANA, La storiografia latina del IV secolo d.C.,Torino [1990]; ID., La storiografia latina pagana del IV sec. d.C., in "Koinonia" 3, [1979], pp. 7-28. V. anche qui avanti, n. 6.

[2]Per lo Zecchini il primo posto va riconosciuto a Lattanzio: ma tra lo Zecchini, convinto che "l'opuscolo di Lattanzio [il De mortibus persecutorum]... è in senso assoluto il primo titolo storiografico della letteratura latina dopo l'età antonina" (La storiografia cristiana latina ..., cit., pp. 171-172) e il Momigliano, che considera il De mortibus persecutorum niente più che un "orribile opuscolo" proveniente da "una voce stridente di odio implacabile" (Storiografia pagana e cristiana, cit., p. 91), c'è posto per chi considera lo scritto di Lattanzio non come un'opera di storia ma solamente come un documento di aspra lotta ideologica. Così pensa anche C. MORESCHINI ("si tratta di un pamphlet più che di un'opera storica") in C.M.-E.NORELLI, Storia della letteratura cristiana antica greca e latina. I. Da Paolo all'età costantiniana, [Brescia, 1995], p. 571. In questa medesima prospettiva di documento di aspra polemica può essere preso in considerazione anche il Liber contra Constantium di Ilario di Poitiers, dove Costanzo II è posto sullo stesso piano degli imperatori persecutori dei cristiani (Nerone, Decio, Massimiano). Anche i cosiddetti Fragmenta historica o Excerpta de opere historico deperdito del medesimo Ilario si presentano come una raccolta di documenti, assai importante per la conoscenza della controversia ariana in Occidente fra il 343 e il 366 (v. ora J. DOIGNON, in Restauration et renouveau, cit. qui avanti, n. 4, pp. 527-532).

[3]Naturalmente bisogna intendersi sul significato di "opera di storia". Sono d'accordo con il Momigliano, che scrive (nel saggio citato, p. 110): "le forme tradizionali della storiografia più alta non attirarono i cristiani.. Essi ne inventarono di nuove e queste invenzioni [che sono, secondo il Momigliano, la storia ecclesiastica (pensiamo ad Eusebio di Cesarea) e la biografia dei santi] sono i contributi più importanti alla storiografia che si registrino dopo il sec. V a.C. e prima del secolo XVI". Di altro avviso, a questo riguardo, è lo Zecchini, art. cit.: ma bisogna tenere conto che il Momigliano considera in un'unica prospettiva la storiografia di lingua greca e quella di lingua latina, mentre lo Zecchini rivolge l'attenzione, come già precisa il titolo del suo studio, alla "storiografia cristiana latina".

[4]Cito da Restauration et renouveau , a c. di R. Herzog (vol.V della Nouvelle histoire de la Littérature latine a c. di R. Herzog e P. L. Schmidt), Brepols [Tournhout 1993], p. 200. Si veda, ivi, dello Schmidt, il capitolo sulla storiografia, pp. 199-243.

[5]Restauration et renouveau, l.c.

[6]Ho illustrato questa caratteristica prendendola in considerazione da vari punti di vista ne La storiografia latina ..., cit.(1990), pp. 32-44.

[7]Intendo liquidum in funzione avverbiale.

[8]Si osservi, in questo testo, la successione: liquidum secundum veritatem... in brevi: chiarezza, verità, brevità sono i tre criteri di base dell'opera storica anche secondo un excerptum retorico de historia edito la prima volta nei Rhetores Latini Minores di C. HALM, pp. 588.17-589.2; esso è conservato nel codice Parisinus Latinus 7530 (della fine del sec. VIII), ristampato in I. LANA, La storiografia ..., p. 56: ne sono riportati i termini essenziali in Restauration et renouveau, cit., p. 199 T.1. Nell' excerptum retorico si legge: historici officii sunt tria: ut veras res, ut dilucide, ut breviter exponat. Non siamo in grado di datare l'excerptum con maggior precisione di quanto non risulti dalla datazione del codice stesso (intesa ovviamente come termine ante quem): ma non è dubbio che i tre precetti appartengano già all'insegnamento retorico dell'età tardoantica e che su di essi si ritrovassero d'accordo sia i pagani sia i cristiani.

[9]Cioè le prospettive e le interpretazioni problematiche degli eventi proposte dagli storici pagani - presentati tutti sprezzantemente come ignorantes, in rapporto ai cristiani, che sono invece veritatis ministri - , le quali generano liti e rendono difficile, a chi non lo conosce, il senso delle cose che si possono studiare.

[10]P. es. SERVIO, De centum metris, GLK 4.457.2-4, escude ogni considerazione delle rationes, nella presentazione dei metri, convinto com'è che la scientificità plus confusionis quam utilitatis habet. Altri esempi di orientamenti analoghi in grammatici si possono vedere in LANA, La storiografia latina ..., cit. (1990), pp. 33-36.

[11]Bene si è espresso F. GHIZZONI, Sulpicio Severo, [Parma 1983], p. 195: tra i cristiani di Occidente "il passaggio [dalla cronografia] alla storia vera e propria avviene [...] con Orosio nell'ambito della storiografia latina cristiana".

[12]In generale su fonti e reminiscenze classiche di Sulpicio Severo ampia disamina in GHIZZONI, Sulp. Sev., op. cit., pp. 201-210; 256-261; v. anche S. COSTANZA, I Chronica di Sulp. Sev. e le Historiae di Trogo-Giustino, in "La storiografia ecclesiastica nella tarda Antichità", Messina, Centro di studi umanistici , 1980, pp. 275-312.

[13]Sui cronografi è tuttora fondamentale H.GELZER, Sextus Julius Africanus und die Byzantinische Chronographie, Zwei Teile in einem Band, Hildesheim 1978 (rist. anast. dell'ediz. Leipzig 1898: la I parte fu edita la prima volta nel 1880, la II, 1 nel 1885, la II, 2 (Nachträge), 1898). V. ora anche Restauration et renouveau, cit., pp. 205-211.

[14]Un cenno su di lui in P. MONCEAUX, Histoire littéraire de l'Afrique chrétiénne, VI, Paris 1920, pp. 249 sgg., e nelle storie della letteratura latina cristiana di P. DE LABRIOLLE, I, pp. 437-438, e di U. MORICCA, II 2, pp. 1143-1144; due brevi articoli di enciclopedia, uno di E. PETERSON, nell'"Enciclopedia Cattolica", VI [1951], col. 1613, e l'altro di V. LOI, nel "Dizionario Patristico e di Antichità cristiane" diretto da A. Di Berardino, 1984, II, col. 1746; la scarna "voce" nella Prosopografia del tardo impero romano di JONES, MARTINDALE, MORRIS, II [1980], p. 562, ignora addirittura per il De cursu temporum l'edizione di C.FRICK nei Chronica Minora, I, Leipzig 1892, pp. 153-174, alla quale ci atteniamo. Nella Patrologia, vol. III, a c. di A. Di Berardino, [Casale 1978], per Ilariano non c'è posto. Nel secolo scorso dedicò una certa attenzione ad Ilariano H. GELZER in Sextus Julius Africanus und die Byzantinische Chronographie, cit., II, 1, pp. 121-129. Il MOMIGLIANO, Storiografia... cit., si limita a ricordare, p. 97, i "calcoli millenaristici" di Ilariano. Nella P.-W, R.-E, X 1, s.v. Q. Iulius Hilarianus (274) il Lietzmann, nel 1919, gli dedicò un articolo di diciassette righe. Lo ZECCHINI, nello studio su La letteratura geografica latina tardoantica (nel vol. Ricerche di storiografia ..., cit.,), p. 253, afferma che il Liber genealogus [derivato dalla traduzione integrale della Cronaca di Ippolito] fu "composto in Africa quasi certamente da Ilariano agli inizi del V secolo (405-427 ca.)", mentre poche pagine dopo (p. 258) lo Zecchini non ha più dubbi sull'autore del Liber genealogus definito senz'altro "di Ilariano (407-425 ca.)". Queste oscillazioni nell'attribuzione della paternità dell'opera e sulle date sono una prova aggiuntiva delle difficoltà di arrivare ad una soluzione soddisfacente del problema affrontato dallo Zecchini. Poiché però il Liber genealogus a quanto pare è posteriore al 397 (data di composizione dei due scritti di cui sicuramente è autore il nostro Ilariano), qui non è necessario prendere posizione su di esso.

[15]Circa il nome dell'autore del De cursu temporum o De mundi duratione ecco quanto ho potuto appurare. Il GELZER, l.c., indica il nostro autore con il nome Q.Iulius Hilario - cioè Ilarione - , ma il Frick, cit., attesta, p. CCXVII, che il cod. Leid. Voss. n. 5 (sec. VIII-IX) contenente Ilariano, - codice che egli pone a fondamento della sua edizione - reca ad inizio del testo: incipit liber Quinti Iuli Hilariani de cursu temporum e a chiusura: explicit liber Quinti Iuli Helariani. Il Gelzer citava, dell'autore, il testo dato dal De La Bigne (l'edizione, allora, di riferimento) sul fondamento di un ms. del Piteo. Dalla ricerca compiuta per mio desiderio dalla collega Elena Malaspina - che vivamente ringrazio per la sua disponibilità - nella Biblioteca Vaticana risulta che, nella Maxima Bibliotheca Veterum Patrum et antiquorum scriptorum, il nostro autore appunto sul fondamento della Magna Bibliotheca Veterum Patrum di Margarin De La Bigne (di cui presso la Vaticana esiste la terza edizione di Colonia, 1618) ha il nome di Ilarione (il testo, basato su una tradiz. ms. diversa da quella a cui si riferisce il Frick, è nel t. VI, pp. 373 GH - 376 F con il titolo De mundi duratione). I Nachträge del Gelzer, benché posteriori all'edizione del Frick, non toccano la questione del nome dell'autore.

[16]Nell'opera cit. nella n. 13.

[17]Come deliria già la Max. Bibl. cit., VI p. 373 E, definiva la parte finale del De cursu temporum.

[18]Op. cit., pp. 128-129.

[19]Sotto i consoli C. Fufio Gemino e L. Rubellio Gemino, il 25 marzo, come asseriscono, p. es., TERTULLIANO, Adversus Iudaeos, 8, 18; AGOSTINO, De civit. Dei, XVIII 54, oltre al nostro Ilariano, 171.13, riportato qui avanti.

[20]Gli Ebrei entrano nella Terra promessa dopo aver trascorso 430 anni in Egitto e 40 nel deserto.

[21]V. sopra, p. 12, n. 19.

[22]Infatti dal 29 d.C., cioè dal 16° anno di Tiberio, in cui è collocata, come abbiamo visto, la morte di Cristo, al 397, quando Ilariano scrive, sono trascorsi, contando sia l'anno di inizio, 29, sia l'anno di arrivo, 397, appunto 369 anni.

[24]Cfr. NEMES., De nat. hom. 38; AGOSTINO, De civ. dei, XII 14; M.AURELIO, 7.19.49.1; v. I. LANA, La libertà nel mondo antico, in "Studi sul pens. polit. classico", Napoli [1973], pp. 21-24.

[25]Sull'interpretazione figurale o tipologica della Sacra Scrittura: in particolare si v. H. RONDET, Thèmes bibliques, éxégèse augustinienne, in AA.VV., Augustinus magister..., Paris 1955, III, pp. 231-242; H. DE LUBAC, Esegesi medievale. I quattro sensi della Scrittura, p. I, vol. I, sez. V, Milano 1986, pp. 19-37 (trad. ital.); AA.VV. La terminologia esegetica nell'antichità, Bari 1987; M. SIMONETTI, Lettura e/o allegoria. Un contributo alla storia dell'esegesi patristica, Roma 1985; ID., in "Vetera Christianorum", 1981, pp. 357-382. Sono grato al collega E.Gallicet per queste indicazioni bibliografiche.

[26]Da questa svalutazione della storia è da escludere, naturalmente, la storia ecclesiastica.

[27]Nei M.G.H., Auct. Antiquissimi, XIII. Chronica minora, III, pp. 415-417, il MOMMSEN pubblicò la Expositio temporum Hilariana a. CCCCLXVIII, nella cui prefazione l'ignoto autore si preoccupa di spiegare come mai...il mondo non sia ancora finito. Infatti, leggendo (come scrive il Mommsen, p. 415) nel testo di Ilariano secondo la lezione che a noi è giunta attraverso il cod. Matritense 134 del sec. XIII (copia di un antichissimo codice Alcobaciense perduto) che dalla creazione del mondo fino alla morte di Cristo erano trascorsi 5570 anni [e non 5530 secondo il testo delle edizz. di Ilariano] e che, quindi, per arrivare ai 6000 anni, dalla morte di Cristo dovevano trascorrere ancora 430 anni [e non 470, secondo gli editori di Ilariano], ne deduceva esplicitamente (p. 416, linee 6-7) che la fine del mondo doveva collocarsi nell'anno 463 (per arrivare al 463 l'ignoto autore ai 430 anni ne doveva aggiungere 33, collocando quindi la morte di Cristo non nel 29, ma nel 33: a proposito di quest'alternanza di date per la morte di Cristo, v. sopra, p. 16). Ma siccome l'ignoto scrive nel 468, appariva evidente che la ratio di Ilariano non era affatto cogens e che i calcoli ilarianei erano sbagliati. L'ignoto scrittore spiega, tuttavia, che non i calcoli in sé erano sbagliati, ma sbagliate erano le indicazioni cronologiche di Ilariano riguardanti le vicende delle singole generazioni e del popolo ebraico perché Ilariano le aveva ricavate non ex Hebraicis voluminibus sed ex septuaginta interpretum translationibus (p. 416, 9-10). La responsabilità dell'errore di Ilariano era così scaricata sulla versione dei Settanta. Ci siamo soffermati su questa curiosa Expositio per mostrare come le teorie di Ilariano avessero avuto una certa diffusione nel mondo cristiano, almeno fino all'anno 468. Non è quindi vero che, come scriveva il Gelzer, Sex. Jul. Afric., op. cit., II p. 23, la Cronaca di San Girolamo avesse raggiunto in Occidente una popolarità tale da far dimenticare del tutto anche l'operetta di Ilariano.


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Last technical revision December, 8, 1995.

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