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Arachnion n. 2.1, May 1996


Alle origini della meccanica:
Archimede e Archita[*]

di GIUSEPPE CAMBIANO (Torino)


Sommario


1. Un Archimede platonico.

È possibile affermare che la meccanica rinasce in età moderna sotto l'insegna del nome di Archimede. Galileo chiamerà Luca Valerio "nuovo Archimede" e Bonaventura Cavalieri un altro Archimede e sarà a sua volta denominato Archimede redivivo, come suona il titolo di uno scritto del 1644 di G.B. Hodierna[1]. Non occorre qui citare i passi degli scritti di Galileo, dai quali emerge il suo apprezzamento per Archimede, in particolare per il trattato Sulle spirali. È importante invece ricordare che Alexandre Koyré, nei suoi celebri Studi galileiani, collegò strettamente l'archimedismo del primo Galileo con il suo antiaristotelismo, scorgendone l'esito nella costruzione di una fisica matematica deduttiva e astratta, richiedente soltanto esperimenti mentali riguardanti lo spazio geometrico e non esperimenti effettivi sui corpi reali immersi nello spazio fisico. Quest'ultimo punto è stato a ragione contestato, per esempio da Stillman Drake. Ma per la questione che ci interessa sviluppare è significativo che l'interpretazione di Koyré si fondasse sul presupposto di un sostanziale platonismo di Archimede: era questo che permetteva a Koyré di costruire una linea di continuità che andava da Platone a Galileo. Per quel che che ne so, l'unico argomento avanzato da Koyré a favore di questa tesi è l'asserzione che "per tutta la tradizione dossografica, Archimede è un filosofo platonico"[2]. Koyré non cita i testi antichi che costituirebbero questa tradizione dossografica, ma non è difficile congetturare che egli intendesse riferirsi al ritratto di Archimede, delineato da Plutarco nella Vita di Marcello, in riferimento ai congegni meccanici da lui apprestati per la difesa di Siracusa dall'assedio dei Romani.

Non si è posta forse sufficiente attenzione sul fatto che Plutarco, nell'esporre quello che a suo avviso era l'atteggiamento di Archimede nei confronti della meccanica, operava un'inversione rispetto alle considerazioni svolte nel Fedro platonico sui rapporti fra oralità e scrittura. Plutarco riprendeva la polarità spoudé - paidià, attività seria e gioco, impiegata da Platone per descrivere l'opposizione tra oralità dialettica e scrittura, ma la usava per qualificare come serie le indagini geometriche di Archimede e come un gioco le sue costruzioni di congegni meccanici. Se Archimede aveva acconsentito a occuparsi di questi ultimi, già prima dell'assedio dei Romani, era stato solo per l'insistenza del re Ierone, il quale riteneva che tali costruzioni dimostrassero nei fatti, in modo più evidente a molti, la portata delle indagini teoriche di Archimede. Naturalmente, più che Ierone, era Plutarco, soprattutto sulla scorta di una certa lettura della Repubblica platonica, a interpretare la costruzione di congegni meccanici come un procedere dall'intelligibile al sensibile e un mescolare logos e sensazione. Ciò che egli voleva far intendere era che proprio questa ragione aveva indotto Archimede a non considerare i mechanemata "un'attività meritevole di serio impegno (ergon axion spoudés)". I congegni da lui costruiti erano parerga, frutto accessorio e secondario di una geometria "che gioca (paizouse)"[3]. Certo, Plutarco sapeva che la fama di Archimede era legata soprattutto alle sue macchine, ma sottolineava che su ciò Archimede non aveva voluto lasciare alcuno scritto (syngramma)[4]. Come si vede, la ragione addotta da Plutarco del fatto che Archimede non aveva scritto sulle macchine è esattamente inversa a quella teorizzata nel Fedro platonico: per Archimede, secondo Plutarco, è lo scritto che contiene le cose serie, mentre ciò che è moralmente e socialmente inferiore, banausico e legato al mondo dei bisogni e dell'utilità, è indegno di essere messo per iscritto. L'orizzonte in cui si collocano queste considerazioni di Plutarco è quello della philotimia, dell'apprezzamento sociale. Nel Fedro Socrate non riteneva che fosse questo il criterio per misurare il valore e la funzione dello scrivere, ma da un passo dello stesso dialogo (257 d) emerge che erano i politici ateniesi del tempo a ritenere indegna e propria di sofisti l'attività dello scrivere in quanto tale. È chiaro, invece, che agli occhi di Plutarco lo scrivere ha ormai acquisito lo stato di attività seria e onorevole. Nell'Archimede plutarcheo, infatti, non è lo scrivere in quanto tale a generare discredito, ma lo scrivere su contenuti meccanici e banausici, legati alla sfera della necessità (l'anankaion). Ben altrimenti apprezzabile è invece la scrittura di indagini geometriche[5]. È comprensibile che con questa impostazione potesse risultare pienamente compatibile l'immagine di un Archimede studioso puramente contemplativo. Secondo Plutarco, non era possibile "non prestar fede" ai racconti su Archimede "afferrato dalle Muse" (mousoleptos) e sempre "ammaliato" (thelgomenos) da una sua personale Sirena, che lo induceva a trascurare cibo e cura del corpo, a cui egli poteva essere costretto solo a forza, ma continuando a tracciare figure geometriche sul suo stesso corpo unto d'olio[6]. Anche in questa rappresentazione, che trova la sua espressione più emblematica nelle versioni della morte di Archimede durante la presa di Siracusa[7], è possibile scorgere la ripresa di un altro motivo del Fedro platonico, quello dei pregi della mania di origine divina.

Nascono a questo punto alcuni interrogativi. Come deve essere intesa l'affermazione di Plutarco che Archimede non lasciò scritti sui mechanemata? Se con questa espressione s'intende scritti di meccanica in generale, se ne dovrebbe concludere che Plutarco o ignorava o taceva dell'esistenza di testi a noi pervenuti quali Equilibrio dei piani o Sui galleggianti. Non si dimentichi che in Quadratura della parabola, prop. 6 Archimede rinvia - se non è un'interpolazione di editori posteriori - a un suo scritto sui Mechanikà, ossia a elementi di statica che non dovevano essere molto differenti dal primo libro di Equilibrio dei piani[8]. È più verosimile pensare che Plutarco intendesse riferirsi a scritti di meccanica pratica, contenenti istruzioni per costruire macchine, in particolare belliche. Ciò potrebbe infatti essere compatibile con un'affermazione di Carpo di Antiochia, riportata da Pappo, secondo cui Archimede aveva scritto un solo libro mechanikòn, quello sulla sphairopoiìa, riguardante le modalità di costruzione di un planetario sferico, mentre non aveva ritenuto degno comporne altri. Occorre tuttavia rilevare che, sempre secondo Pappo, per Gemino Archimede era stato il meccanico per eccellenza, che aveva applicato la sua intelligenza alle esigenze della vita quotidiana e che Carpo stesso aveva collegato la geometria ad alcune tecniche[9]. È chiaro invece che, partendo dalla non esistenza di scritti di Archimede sulla meccanica costruttiva, Plutarco - o le fonti eventuali a cui attingeva - inferiva l'esistenza di un giudizio negativo di Archimede sulla meccanica, come una sorta di inversione dell'itinerario dal sensibile all'intelligibile, teorizzato da Platone. Ma non si deve dimenticare che il non scrivere non era aspetto inconsueto nella trasmissione del sapere tecnico, non di rado legato ai segreti del mestiere, tanto più nell'ambito della tecnologia militare, senza che ciò comportasse una svalutazione di questa forma di sapere.

Un secondo problema, più complesso, riguarda il grado di attendibilità dell'immagine plutarchea di un Archimede platonizzante, contemplativo e antibanausico. Non molti anni fa è stata ancora dibattuta la questione della presenza di tratti platonici nelle opere conservate di Archimede[10]. Personalmente, non credo che sia possibile trovarvi tracce sicure di platonismo. Lo stesso riconoscimento archimedeo della preesistenza delle proprietà delle figure geometriche rispetto alla scoperta che ne fa il geometra non è di per sé indizio di platonismo. Così la sua tesi sulla superiorità della dimostrazione rispetto al metodo meccanico - reperibile nello scritto sul Metodo e altrove - non può essere letta come l'affermazione della superiorità della ricerca matematica pura rispetto alle indagini meccaniche. In questo caso infatti, la superiorità non riguarda discipline distinte, rispetto a cui si tratterebbe di stabilire una gerarchia di valore, ma è tutta interna alla geometria, dove un metodo, che parte da nozioni e assunzioni proprie della meccanica (come quella di centro di gravità), è impiegato in funzione euristica, per lasciare poi il passo alla dimostrazione geometrica, che parte da principi esclusivamente geometrici[11].

2. Archimede versus Archita.

L'obiettivo di Plutarco è chiaro: egli intende affermare una linea di continuità che va da Platone - ovviamente, un Platone letto in una certa prospettiva - ad Archimede. L'elaborazione di genealogie, che riconducono i matematici a prospettive filosofiche, non è un fatto inconsueto nel mondo antico, almeno a partire da un certo momento. Naturalmente erano i filosofi a costruire tali genealogie, la più nota delle quali è quella presente nel commento di Proclo al primo libro di Euclide, dove Euclide è qualificato esplicitamente come platonico. Ma la cosa interessante è che Plutarco rafforza la propria interpretazione di un Archimede platonico, presentando Platone come critico di Eudosso e di Archita, rei di corrompere la geometria, sviandola dallo studio degli enti intellegibili per indirizzarla ai sensibili, ossia capovolgendo l'impostazione propria di Platone, alla quale invece Archimede sarebbe rimasto fedele. La rampogna di Platone era giustificata, secondo Plutarco, dal modo in cui Eudosso e Archita avevano tentato di risolvere il problema della duplicazione del cubo, ossia servendosi di organikà paradeigmata e di organikaì kataskeuaì, cioè di strumenti sensibili per risolvere un problema squisitamente geometrico. La riduzione della geometria a meccanica equivaleva a capovolgere l'itinerario platonico dalla geometria alla dialettica. Con l'espressione organiké Plutarco si riferiva proprio alla costruzione di congegni sensibili, più che alla meccanica puramente teorica[12]. Egli parlava infatti di mesographous, ossia di strumenti capaci di tracciare sensibilmente le due medie proporzionali, mediante le quali il problema della duplicazione diventava risolubile. Ciò non può non richiamare il mesolabos, una sorta di regolo flessibile, che Eratostene di Cirene si era vantato di aver inventato a tale scopo[13]. Ciò che colpisce è che anche Eratostene aveva mosso dei rimproveri ad Archita e a Eudosso a questo proposito, ma per la ragione esattamente opposta a quella che, secondo Plutarco, aveva indotto Platone a criticarli. Secondo Eratostene, infatti, essi avevano formulato dimostrazioni geometriche (apodeiktikos gegraphenai) di come sia possibile trovare le due medie proporzionali, ma non erano stati in grado di cheirourgesai, ossia di costruire strumenti capaci di determinarle di fatto nei vari casi empirici. Da questa accusa Eratostene aveva escluso parzialmente Menecmo, pur criticando anche la sua soluzione. Non può sfuggire il parallelismo e, insieme, l'inversione tra il testo eratostenico e quello plutarcheo. In entrambi il bersaglio dell'accusa è costituito soprattutto da Archita e Eudosso, ma per Plutarco essi erano colpevoli di aver ridotto la geometria all'organiké, mentre per Eratostene essi non erano riusciti a collegare la geometria all'organiké. Se Plutarco aveva di fronte il testo di Eratostene, ne compiva una deliberata inversione, implicitamente coinvolgendo lo stesso Eratostene, autore anch'egli di una soluzione meccanica del problema, in una sorta di accusa anticipata da parte di Platone.

Esiste però un'altra storia riguardante la duplicazione del cubo e risalente anch'essa ad Eratostene, di cui riferisce Teone di Smirne. Nel Platonico Eratostene aveva raccontato di un oracolo, che aveva imposto agli abitanti di Delo di raddoppiare l'altare di forma cubica, dedicato al dio. Il quesito aveva generato aporia negli "architetti", che ne avevano cercata la soluzione, sicché i Deli avevano cercato consiglio presso Platone, che aveva interpretato l'oracolo come un rimprovero del dio agli Elleni di trascurare la geometria e un invito a occuparsene, non tanto come un'espressione del desiderio del dio di avere un altare doppio[14]. Un racconto analogo ricorre anche in altri testi plutarchei, precisamente De E apud Delphos (6,386 e) e De genio Socratis (7, 579 b-d), con l'aggiunta in quest'ultimo che i Deli si erano rivolti a Platone in quanto geometrikòs e che Platone preconizzava - si noti il futuro syntelesein - che gli scopritori della soluzione del problema sarebbero stati Eudosso e Elicone di Cizico, anche se non era tanto della scoperta di questa soluzione che il dio era preoccupato, quanto del fatto che gli Elleni, grazie allo studio delle matematiche, avrebbero corretto e perfezionato la loro vita etica e politica. Generalmente gli studiosi hanno assunto che la versione plutarchea della storia del problema di Delo sia anch'essa riconducibile al Platonico di Eratostene, ma è difficile dire se le aggiunte che essa presenta rispetto al testo di Teone risalgano anch'esse ad Eratostene o siano dovute a Plutarco stesso. Non si può affermare che il resoconto di Teone contrasti con la storia narrata nell'epistola di Eratostene, anche se qui i Deli non si rivolgono a Platone stesso per aiuto, bensì direttamente ai geometri operanti presso Platone nell'Accademia. È vero, d'altra parte, che nel testo di Teone si mette in rilievo l'incapacità dei tecnici (gli architektones) di risolvere l'aporia, ma né si dice che Platone stesso fornì una soluzione del problema[15], né si formula alcuna valutazione negativa della meccanica, neppure nel senso di organiké. Il problema nasce invece se si confronta il resoconto plutarcheo con l'epistola di Eratostene. Il punto chiave è costituito dal riferimento a Eudosso, come a colui che in futuro avrebbe risolto il problema. Quale significato dare al verbo syntelésein? Si aprono, a mio avviso, due possibilità. La prima consiste nell'interpretarlo come una sorta di benedizione e approvazione anticipata da parte di Platone della soluzione che senz'altro Eudosso avrebbe trovato. Se così fosse e conoscendo la concezione della geometria come veicolo di ascesa dal sensibile all'intelligibile, attribuita da Plutarco a Platone, ciò potrebbe apparire non incompatibile con il rilevo mosso da Eratostene alla soluzione eudossiana del problema della duplicazione, di essere condotta sul piano esclusivamente teorico e di non portare all'escogitazione di uno strumento meccanico capace di trovare di fatto le due medie. In tal caso, quello che per Eratostene era stato un limite negativo, si trasformava in Plutarco in un connotato positivo. Nascerebbe però una difficoltà: perché Plutarco nel de genio Socratis presenterebbe un Eudosso approvato da Platone e nella Vita di Marcello e nelle Questioni conviviali un Eudosso criticato, insieme ad altri, da Platone proprio per aver fatto ricorso nella soluzione del problema a organikàs kai mechanikàs kataskeuàs? Una via d'uscita potrebbe consistere nell'interpretare il syntelesein non come un'approvazione anticipata da parte di Platone, bensì soltanto come la previsione del fatto che Eudosso e Elicone avrebbero trovato la soluzione, ma senza che ciò implichi alcun riferimento al tipo e alle modalità della loro soluzione. In tal caso, la storia raccontata nelle Questioni conviviali e nella Vita di Marcello riguarderebbe ciò che sarebbe successo post eventum, ossia dopo la scoperta della soluzione. In questo resoconto degli eventi successivi scompare Elicone, mentre fanno la loro comparsa accanto a Eudosso anche Archita e Menecmo e, soprattutto, la critica platonica alle modalità delle loro soluzioni. In questo modo i vari passi plutarchei, concernenti la storia della duplicazione, potrebbero risultare compatibili fra loro; ma se la prima fase della storia poteva avere un suo antecedente nel Platonico di Eratostene, non si può dire lo stesso della seconda fase[16]. È possibile che Eratostene, così incline a riallacciarsi alla tradizione platonica[17], introducesse nel Platonico o altrove un Platone ostile e critico nei confronti del tipo di soluzione meccanica del problema di Delo, da lui stesso propugnata e portata a compimento? Se si analizza il modo in cui sono esposte in Eutocio le soluzioni del problema della duplicazione di Eudosso e di Archita (in quest'ultimo caso la fonte dichiarata è Eudemo di Rodi), si può constatare come il rilievo di Eratostene non sia infondato: esse non comportano il riferimento a strumenti meccanici. Esse presuppongono però la generazione di curve mediante il movimento di linee o per intersezione di solidi di rivoluzione. Forse fu proprio il fatto di comportare costitutivamente il riferimento al movimento di entità geometriche a indurre Plutarco - o l'eventuale sua fonte - a considerare queste soluzioni in contrasto con una prospettiva autenticamente platonica. Plutarco non ignorava certo il passo della Repubblica platonica (527 a-b), in cui è messo alla berlina il linguaggio inappropriato dei geometri, che parlano di "quadrare" o "applicare" in riferimento a entità puramente intellegibili come quelle geometriche e, per ciò stesso, esenti da ogni movimento e mutamento. Plutarco forse prendeva alla lettera questo passo platonico, interpretandolo come un divieto e compiva l'ulteriore passo di collegare la nozione di movimento con la meccanica e addirittura con l'organiké[18]. Non è un caso che ciò avvenisse nella Vita di Marcello proprio in connessione con l'opera di Archimede e comportasse l'introduzione del riferimento ad Archita, che era invece assente nei suoi resoconti della storia del problema di Delo. Ad un Archimede annesso alla tradizione platonica faceva in tal modo da contraltare un Archita collegato a Eudosso e Menecmo, tutti condannati da Platone per l'indebita compromissione della geometria con la meccanica.

3. Archimede, la meccanica e il pitagorismo.

Come valutare la divaricazione, stabilita da Plutarco, tra le posizioni di Archita e di Archimede? La questione è naturalmente collegata al problema dell'eventuale eredità di aspetti della cultura magno-greca nell'opera di Archimede. Occorre rilevare in primo luogo che Archimede, negli scritti conservatici, si richiama esplicitamente a una tradizione fatta dei nomi di Democrito e di Eudosso e non menziona mai Archita. Inoltre, come si sa, egli trova i suoi interlocutori soprattutto in Alessandria: Conone, Aristarco di Samo, Dositeo, Eratostene[19]. Sarebbe tuttavia frettoloso concludere che le indagini di Archita gli dovessero essere totalmente estranee. Oltre che sul piano costruttivo[20], Archimede si occupò di meccanica anche sul piano teorico, in scritti come Equilibrio dei piani e Sui galleggianti, impiegando strumenti concettuali di provenienza geometrica per affrontare problemi di statica e di idrostatica. Proprio questa unione di ratio e di fabrica sarà una delle ragioni che condurrà all'alto apprezzamento dell'opera di Archimede nel Rinascimento, per esempio in Guidubaldo del Monte, autore di un Liber mechanicorum (1577 e poi in italiano, 1581)[21]. Com'è noto, posizione di rilievo nella meccanica archimedea ha la nozione di centro di gravità, che in Equilibrio dei piani è data come nota e, secondo Stein, definita implicitamente mediante i postulati enunciati nello scritto. Si potrebbe anche congetturare che essa fosse definita da Archimede in qualche opera per noi perduta, ma in generale comunque si tende a escludere che fossero esistite formulazioni pre-archimedee di tale nozione[22]. Se ciò è vero, non è in questa direzione che devono essere cercati i contributi di Archita alla costituzione di una meccanica. D'altra parte, Archimede non sembra essersi occupato del problema della duplicazione del cubo: Eutocio non lo menziona tra quanti ne diedero una soluzione[23]. Tuttavia in Sfera e cilindro II, prop. 1 Archimede ammette come nota la possibilità di trovare due medie proporzionali tra due rette date e questa, come si sa, fu la via imboccata dagli antichi, a partire da Ippocrate di Chio, per risolvere il problema della duplicazione. Non è chiaro a quale soluzione Archimede si riferisse: stando a Eutocio, una risaliva a Eudosso e Eudosso era uno degli autori esplicitamente apprezzati da Archimede, ma non si può escludere che Archimede potesse essere a conoscenza anche della soluzione di Archita. Sia Eudosso, sia Archita avevano utilizzato il moto di entità geometriche nelle loro soluzioni. È possibile che, riflettendo su queste impostazioni, Archimede potesse giungere all'idea di utilizzare nozioni e procedure meccaniche per investigare problemi geometrici di quadratura, immaginando - come avviene nel Metodo e in Quadratura della parabola - una leva tenuta in equilibrio da figure piane sospese ad essa. Non a caso destinatario dello scritto sul Metodo è proprio quell'Eratostene, che così altamente apprezzava l'impiego non solo di nozioni, ma addirittura di strumenti meccanici per la soluzione del problema della duplicazione del cubo. È verosimile che Archimede sapesse di poter trovare in Eratostene un interlocutore capace di apprezzare i suoi tentativi di introdurre procedure meccaniche nell'indagine geometrica. C'è inoltre un secondo aspetto della questione, che merita di essere sottolineato. Nell'epistola a Tolomeo, Eratostene indica tra i pregi del congegno da lui escogitato quello di consentire il reperimento non soltanto di due medie proporzionali, ma di quante si voglia, sicché tale congegno si dimostra particolarmente utile per la costruzione di macchine belliche per lanciare proiettili[24]. Eratostene allude qui a un problema tipico della meccanica costruttiva: com'è possibile variare in scala il modello di un congegno, ossia accrescerne o diminuirne le dimensioni e quindi la portata di lancio, conservandone immutata la configurazione? Autori di trattati sulle macchine per lanciare proiettili, come Filone di Bisanzio o Erone, affermano esplicitamente che, grazie alla soluzione del problema della duplicazione del cubo, è possibile, partendo da un dato diametro, costruire i diametri rimanenti di tali macchine[25]. Agli occhi degli antichi, la soluzione del problema di Delo appariva dunque rilevante anche per la meccanica, in particolare nei suoi usi bellici. Forse entro questo quadro va inscritta anche la figura di un Archita meccanico, offertaci dalla tradizione.

Prima di arrivare a ciò, occorre però fare i conti con una immagine del pitagorismo, ben nota e consolidata, ma non per questo meno unilaterale. Un aneddotto, riferito in versioni leggermente diverse da Cicerone, Vitruvio e Galeno, racconta che una volta il filosofo socratico Aristippo, che pure secondo Aristotele disprezzava le matematiche in quanto non si occupavano del bene e del male, gettato da un naufragio su una spiaggia, scorgendo figure geometriche disegnate sulla sabbia, ne inferì di essere approdato tra uomini e, nella versione ellenocentrica di Galeno, tra Elleni[26]. Analoga inferenza sembrano spesso fare gli studiosi moderni quando s'imbattono in riferimenti a numeri e figure nei testi antichi: scorgono in ciò inevitabilmente il segno del pitagorismo. Walter Burkert, nel suo ancora fondamentale Weisheit und Wissenschaft (1961), ha giustamento sottolineato l'esistenza di tradizioni matematiche antiche non necessariamente riducibili al pitagorismo. Un secondo miraggio degli studiosi moderni consiste nel considerare lo stesso pitagorismo come un'entità rigidamente unitaria e omogenea, forse condizionati dalla sua immagine di setta, che non sappiamo fino a che punto conservasse ancora forti legami di identità e ortodossia dopo la diaspora della metà del V secolo[27]. Senza arrivare agli eccessi di Erich Frank, occorre tuttavia riconoscere che il grave problema storiografico posto dal pitagorismo consiste nel liberarlo (e anche su ciò sono importanti le analisi di Burkert) dalle mescolanze a cui è stato frequentemente sottoposto, nella tarda documentazione antica, con il platonismo e il neoplatonismo. Si è come generato un circolo: Platone va in Magna Grecia e si pitagorizza, ma il pitagorismo che egli assorbe è già letto in chiave platonica. Nonostante alcune eccezioni, l'assimilazione pitagorismo-platonismo finisce col dominare nell'antichità.

Con parole pressoché identiche Giamblico e Proclo attribuiscono a Pitagora il merito di aver trasformato la geometria in una forma di paideia liberale, svincolata dai problemi pratici[28]. Ma se si considera quanto Giamblico dice sulle possibilità effettive al suo tempo di conoscere la matematica pitagorica originaria, si può incontrare qualche sorpresa. Egli sa bene che in buona parte essa era conservata in mnemais agrephois, che ai suoi tempi non esistono più, sicché essa non è facile da tekmairesthai né da aneurein attraverso scritti o tradizioni orali. Tuttavia egli non si scoraggia e mette in opera una procedura - che forse uno studioso moderno non riterrebbe del tutto raccomandabile - consistente nell'inferire da piccole scintille (aithygmata), nel renderle corpose (somatopoiein) e ricondurle a principi (archaì) appropriati, colmando le lacune e avvalendosi di un criterio di coerenza, ossia di consequenzalità tra quanto è trasmesso senza contestazioni e le conseguenze che noi ne traiamo. In tal modo - egli conclude - noi acquisiremo la reale episteme matematica pitagorica o, per lo meno, arriveremo quanto più vicino possibile a essa. Il fatto è che l'assunto iniziale da cui dedurre i contenuti dell'antica matematica pitagorica è per Giamblico la concezione della matematica come catarsi dell'anima, scoperta dei primi eide eintellegibili e indagine mirante al bene[29]. Sembra difficile contestare che questo assunto contenga una dose massiccia di platonismo. Giamblico non esclude la possibilità di un uso delle matematiche in ambito etico, politico e nelle stesse ergasiai technikaì. Ma afferma a chiare lettere che la matematica pitagorica, sin dalle origini, è ben diversa da quella praticata dai più al suo tempo (nun epipolàzousa), la quale usa piuttosto la sensazione e la phantasia ed è più incline alla génesis: questo significa che essa è technikè tò pleon[30]. Dai caratteri generali che egli assegna alla matematica pitagorica, Giamblico inferisce il disinteresse di essa per i problemi, se non nella misura in cui sono compatibili con gli Elementi, ossia limitatamente ai problemi della parabolé (cioè dell'applicazione delle aree) e della quadratura del cerchio[31]. È chiaro che si accettasse questa immagine della matematica pitagorica antica, ricostruita da Giamblico mediante una proiezione all'indietro di tratti platonici, risulterebbe assai poco comprensibile l'attività di un Archita, che proprio di un problema, come quello della duplicazione, assente negli Elementi di Euclide, aveva fornito, stando a Eutocio, la prima soluzione e, per di più, coinvolgendo in essa il movimento, in contrasto con una certa interpretazione della posizione di Platone.

4. La meccanica in Magna Grecia e Archita.

In una futura storia e geografia della meccanica antica, accanto a Samo e Rodi, Atene, Alessandria e Siracusa, indubbiamente un posto spetterà anche alla Magna Grecia, in particolare proprio a Taranto. Per comprendere il significato di questo fatto, occorre sgombrare il campo da una visione municipalistica della cultura magno-greca, particolarmente fortunata, come si sa, nell'Ottocento, da Cuoco a Gioberti, sino al patetico tentativo di Vincenzo Capparelli di additare nel pitagorismo, in funzione anti-hegeliana, cioè contro "una duratura ed umiliante tutela straniera", il modello culturale a cui doveva ispirarsi il nazionalismo fascista[32]. E ciò per la ragione che tale cultura, proprio sul versante tecnico, guardò oltre i propri confini e Archita, attento alla filosofia platonica, come ha tentato di mostrare recentemente Geoffrey Lloyd, attraverso un'analisi della platonica Lettera VII, ne sarebbe appunto un esempio[33]. Ma una ragione più generale è data anche dal carattere tendenzialmente cosmopolitico del sapere tecnologico, in una fase nella quale l'attività tecnica è uscita dal chiuso del segreto professionale e ha trovato espressione anche nelle forme della scrittura[34]. Agli occhi della tradizione antica, la Sicilia appariva come un ricettacolo di applicazioni tecniche, sin dalla tradizione mitica del soggiorno di Dedalo presso il re Cocalo e i Sicani, quale risulta nel racconto di Diodoro Siculo. E Diodoro fornisce anche il ben noto ritratto di Dionisio I a Siracusa, in anticipo di vari decenni su Demetrio Poliorcete per l'attenzione con cui seguiva personalmente il lavoro di progettazione e costruzione delle macchine belliche. Diodoro, anzi, colloca la scopera della catapulta proprio a Siracusa durante il conflitto ingaggiato da Dionisio coi Cartaginesi a partire dal 399 a.C. Tale scoperta fu resa possibile e facilitata dal fatto che Dionisio aveva attratto a Siracusa i migliori tecnici da ogni parte, anche dall'Italia, dall'Ellade e dai domini cartaginesi[35]. Non a torto si è ipotizzato che il riferimento all'Italia dovesse riguardare in primo luogo Taranto, la città con cui Siracusa era allora in amichevoli rapporti[36].

Per quel che ne so, abbiamo notizia di due meccanici, inventori o perfezionatori di macchine belliche, originari di Taranto. Uno è Eraclide, a cui è attribuita l'invenzione della cosiddetta sambuca, che Plutarco dice usata da Marcello nell'assedio di Siracusa[37]. Il ritratto impietoso che Polibio (XIII 4-5) traccia di Eraclide, terribile verso i deboli e adulatore dei potenti, cacciato da Taranto per sospetta connivenza coi Romani e poi al servizio di Filippo di Macedonia verso il 204 a.C., è indicativo sia dei suoi legami con la propria città di origine (tra l'altro, è detto discendere da una famiglia dedita ad arti manuali), sia del suo sradicamento da essa. Ma il carattere cosmopolitico dell'attività tecnologica trova ulteriore conferma in un altro meccanico di origine tarantina, cronologicamente meno lontano di Eraclide dai tempi di Archita, in quanto la sua attività pare collocabile non molto dopo la metà del IV secolo a.C. Si tratta di Zopiro di Taranto, a cui Bitone, autore di un trattato di poliorcetica, attribuisce circa un secolo dopo la direzione della costruzione del gastraphetes, una balestra che veniva verosimilmente usata appoggiandola al ventre, antecedente alla scoperta delle macchine da lancio a torsione o mediante pulegge, come quella che Plutarco attribuisce a Archimede per sollevare la nave di Ierone. La cosa interessante è che Bitone colloca questa impresa di Zopiro a Mileto e, poco dopo, parlando della costruzione di un gastraphetes da usare in montagna, risalente anch'essa a Zopiro, ne indica il luogo di costruzione a Cuma in Italia[38]. Sembra dunque chiaro il carattere itinerante dell'attività di Zopiro, ma ciò non contrasta con una sua possibile formazione nel suo ambiente di origine. Già Hermann Diels ipotizzò che egli appartenesse alla cerchia di Archita e fosse da identificare con lo Zopiro di Taranto, menzionato nel catalogo dei Pitagorici, steso da Giamblico e derivante da Aristosseno, il quale, come si sa, era anch'egli originario di Taranto, autore di una vita di Archita e informato sulle vicende pitagoriche anche dal padre Spintaro[39].

Le fonti antiche non sono univoche nel collegare esplicitamente Archita alla tradizione pitagorica. Ciò avviene nella letteratura dossografica, ma altri testi, dalla Lettera VII ad Aristotele stesso, sono silenziosi in proposito. Nei testi in cui si parla specificamente delle sue indagini matematiche e meccaniche il nome di Archita è associato, come si è visto, a quelli di Eudosso e di Menecmo, più che alla tradizione pitagorica. Nell'epistola di Eratostene è anzi presentata una linea puramente geometrica, senza cenni al pitagorismo, la quale va dai primi geometri a Ippocrate di Chio, il primo a ridurre il problema a quello della ricerca di due medie proporzionali, sino ai geometri operanti presso Platone nell'Accademia. A quest'ultimo proposito, accanto a Eudosso e Menecmo, è fatto il nome di Archita, avvicinato quindi all'ambito culturale dell'Accademia, anche se non abbiamo notizie di un suo eventuale soggiorno ateniese. La stessa cosa avviene nell'excursus di storia della geometria in Proclo, risalente verosimilmente a Eudemo di Rodi: qui Archita è posto accanto a Leodamante di Taso e Teeteto[40]. Vitruvio associa Archita a Aristarco di Samo, Filolao (detto qui Tarantino), Apollonio di Perge, Eratostene, Archimede e Scopinas di Siracusa, inventore di un orologio solare, come esempio di combinazione di sapere matematico e sapere costruttivo e meccanico, proprio dell'architetto[41]. In un elenco di scoperte utili per gli uomini lo stesso Vitruvio menziona, insieme al teorema risolto dallo schiavo nel Menone platonico, alla scoperta del regolo da parte di Pitagora e a molte scoperte di Archimede, anche i cogitata di Archita e Eratostene, facendo riferimento alle loro soluzioni del problema di Delo[42]. Infine in un altro passo ricorda Archita in una lista di autori di scritti de machinationibus [43]. Secondo Paul Tannery[44], Vitruvio avrebbe fatto confusione di nomi, identificando con il nostro un quinto Archita menzionato in Diogene Laerzio VIII 82: si tratterebbe di un architetto, di cui alcuni parlano e a cui è attribuito un libro perì mechanés, iniziante con le parole: "queste cose presso Teucro cartaginese ho appreso (diekousa)". Se autentica, questa frase sarebbe un prezioso indizio delle relazioni di Archita con la cultura tecnologica sviluppatasi fuori della Magna Grecia, verosimilmente in Sicilia [45]. Il fatto è che Tannery partiva dall'assunto del carattere puramente teorico della matematica greca sin dalle origini e, rilevando il carattere puramente matematico e non meccanico delle soluzioni della duplicazione di Archita e Eudosso, riteneva del tutto inattendibile l'attribuzione a Archita di interessi meccanici da parte di autori matematicamente incompetenti, quali Plutarco o Diogene Laerzio. Egli negava di conseguenza che ad Archita potesse essere ricondotta anche l'invenzione di un congegno come la colomba volante.

Fondandosi sull'autorità di Favorino e di molti "illustri greci", Aulo Gellio attribuisce ad Archita la costruzione di un simulacrum ligneo di colomba capace di volare ratione quadam disciplinaque mechanica, grazie alla pressione di aura spiritus inclusa atque occulta, ma incapace di risollevarsi una volta posatasi[46]. Questo sembra essere un limite proprio dei congegni pneumatici antichi, costretti a consumare rapidamente la forza immagazzinata in essi, senza che si fosse in grado di moltiplicarla ulteriormente. Si tratta dunque di congegni, che non consentivano un impiego utile duraturo[47]. In questo senso la colomba di Archita potrebbe rientrare in quella paidià, che Plutarco attribuiva anche alle macchine di difesa escogitate da Archimede. Se così fosse, essa sarebbe inseribile nella classe di congegni-giocattolo destinati a impiego pedagogico, alla quale appartiene anche un'altra invenzione assegnata da Aristotele ad Archita, la cosiddetta platagé, una sorta di sonaglio o raganella, capace di emettere suoni e di tenere occupati e quieti i bambini[48]. Nessun indizio permette di collegare con sicurezza queste invenzioni all'elaborazione di modelli matematici o di pensare a una loro funzione euristica o ostensiva nei confronti di teorie pneumatiche o acustiche, anche se esse presentano un'ovvia relazione con i problemi del movimento e dei suoni. Ma che la meccanica non dovesse essere per Archita un'attività puramente ludica o finalizzata a scopi esclusivamente ludici è stato inferito dal fatto che per ben sette volte egli fu eletto stratego a Taranto[49]. Effettivamente, stando ai dati sulla diffusione della tecnologia militare in Sicilia e in area magno-greca, è chiaro che la carica di stratego metteva necessariamente di fronte a queste nuove realtà tecnologiche. Nella discussione di problemi acustici, formulata in B 1 [50] e fondata sull'assunto che il suono è un moto, le connessioni tra cinetica e altezza dei suoni sono chiarite mediante esempi. Uno di questi è costituito dalle armi da lancio, i bele, a proposito dei quali si osserva che "quelli scagliati con forza vanno lontano e quelli debolmente, vicino. Infatti a quelli che si muovono con forza, l'aria cede maggiormente, a quelli scagliati debolmente, meno". L'esempio è presentato come qualcosa di più noto rispetto a ciò che occorre illustrare o chiarire. Tale era dunque per Archita il comportamento dei proiettili e non è necessario pensare che egli intendesse riferirisi soltanto ai proiettili lanciati a mano. Non abbiamo notizia di macchine militari costruite da Archita, ma che i problemi teorici posti da esse potessero averlo interessato può essere inferito anche dalla sua attenzione verso il problema della ricerca di due medie proporzionali per risolvere il problema della duplicazione del cubo. Come si è visto, la soluzione di esso sarebbe stata esplicitamente riconosciuta come essenziale per la costruzione di macchine da lancio da parte degli autori di trattati di poliorcetica.

Diogene Laerzio, pur inserendo Archita nella diadoché pitagorica, non esita a ricorrere ripetutamente a suo proposito al topos del protos heuretés: "per primo introdusse un moto strumentale (organiké) in una figura-teorema geometrico" (e il riferimento è alla soluzione del problema della duplicazione mediante le due medie proporzionali) e "per primo indagò metodicamente tà mechanikà facendo uso dei principi matematici"[51]. Se la notizia è attendibile - i dubbi più radicali, come si è visto, sono venuti da Tannery - avremmo in Archita il fondatore della meccanica su basi matematiche. Alla luce di quanto dice Aristotele sulla posizione della meccanica nell'ambito delle scienze deduttive, ci saremmo potuti aspettare che Diogene Laerzio fosse più preciso e parlasse di principi non genericamente "matematici", ma geometrici. Aristotele infatti, negli Analitici secondi, presenta la meccanica come una scienza subordinata alla geometria, in particolare alla stereometria[52]. Ma forse la "vaghezza" del linguaggio di Diogene Laerzio non è senza ragione.

Il già ricordato fr. 1 di Archita inizia col riconoscimento dei risultati conoscitivi acquisiti da toì perì tà mathemata[53]. Infatti, la buona conoscenza della natura degli hola - non meglio precisate totalità costituite di parti - li ha messi in grado di avere una visione adeguata anche delle cose particolari (katà meros)[54]. Questa enunciazione generale è esemplificata mediante il riferimento a quattro ambiti di indagine: la velocità e il sorgere e tramontare degli astri, geometria, numeri e musica. Nella versione riportata da Giamblico, il frammento si conclude con l'affermazione da parte di Archita che questi mathémata gli paiono essere adelphéa[55]. Com'è noto, un'affermazione analoga ricorre anche nella Repubblica (530 d) platonica e ciò ha sollevato dubbi sulla paternità architea di essa. Ma nella Repubblica essa riguarda soltanto la parentela fra astronomia e armonica e diversa è la sequenza nella quale sono disposte le varie discipline (aritmetica, geometria, stereometria, astronomia e armonica). Inoltre secondo Platone queste cinque discipline sono collocabili tutte sullo stesso piano, come propedeutiche alla dialettica. Ma, se si accetta l'autenticità di B 4 di Archita, riportato da Stobeo, proprio su questo punto si differenzia la sua posizione da quella di Platone. Filolao aveva sostenuto che la geometria è l'arché e la metropolis della altre discipline[56]. Archita invece avanzava la tesi che, in relazione alla sophia, la logistikà è superiore alle altre technai[57]. La ragione di tale superiorità consiste nel fatto che essa tratta in maniera più evidente anche le cose della geometria. A questo punto Diels sospettava una lacuna, alla quale faceva seguito l'affermazione che "le cose che a sua volta la geometria tralascia, kaì apodeixias la logistica porta a compimento (epitelei) e allo stesso modo (homòs), se c'è una eideon...pragmateìa, anche perì eideon". Prima di pronunciarsi a favore o contro l'autenticità del frammento, occorre affrontare almeno due problemi: 1)che cosa si deve intendere per logistica e, quindi, in che senso essa ha un primato rispetto alla geometria; 2)che cosa sono gli eidea e l'eventuale pragmateia che li riguarda e, quindi, in che senso è la logistica che può condurre a buon termine la trattazione di essi.

Abitualmente, fondandosi soprattutto su testi platonici e sulla derivazione da logismòs, si attribuisce a logistica il significato di tecnica del calcolo mediante i numeri naturali, a volte in contrapposizione all'aritmetica come teoria generale dei numeri[58]. Se così fosse, avrebbero pienamente ragione van der Waerden e Burkert, il primo a parlare di una "logica debole" di Archita, incapace di riconoscere che la scoperta degli irrazionali e dell'incommensurabilità conduceva a un primato della geometria come via di accesso alla soluzione dei problemi posti da tale scoperta, rispetto all'aritmetica dei numeri naturali, e il secondo a sospettare, per questa stessa ragione, dell'autenticità del frammento[59]. Una via d'uscita da queste conseguenze catastrofiche è stata tentata da Maria Timpanaro Cardini, che ha collegato logistica a logos, ma intendendo quest'ultimo in maniera generica come "ragione speculativa". Sono propenso ad accogliere questo accostamento a logos, ma intendendo quest'ultimo nel senso tecnico di "rapporto" e, quindi in connessione a una teoria delle proporzioni (analogìai)[60]. Archita si occupava di questa teoria in ambito musicale, ma non è detto che ne restringesse l'applicazione soltanto a questo ambito. È proprio attraverso la teoria delle proporzioni, che sarebbe stato aggirato e risolto il problema dell'incommensurabilità. E forse non è un caso che ad Eudosso, non di rado associato ad Archita soprattutto dalla tradizione matematica, sia attribuito il libro V di Euclide, contenente una teoria generale delle proporzioni, valida per grandezze sia commensurabili, sia incommensurabili. Visto in questa prospettiva, forse il primato assegnato da Archita alla logistica non appare così retrogrado, come apparirebbe invece interpretando la logistica come semplice tecnica di calcolo mediante numeri naturali. I logoi, infatti, di cui si occupa la logistica, ricorrono anche in geometria, in musica, in astronomia. Sarebbe tuttavia anacronistico assegnare già ad Archita l'assiomatizzazione eudossiana della teoria delle proporzioni. Il vocabolario ricorrente in B 4 sembra infatti descrivere la logistica non come una disciplina da cui le altre siano deducibili o comunque derivabili, bensì come una trattazione che interviene e completa ciò che le altre discipline non sono riuscite a portare a compimento.

La seconda questione, ancor più complicata, riguarda il significato di eidea. I due protista eidea, di cui si parla in B 1, nella versione che ne dà Nicomaco, sono sovente interpretati come il posòn e il pelikon, a cui si riferisce Giamblico, ossia l'ambito dei numeri e quello delle grandezze[61]. Un'altra strada è consistita nell'identificare i due eidea con il pari e il dispari nell'aritmetica e il limite e l'illimitato nella geometria, collegando la posizione di Archita a quella di Filolao, conformemente del resto a una certa tradizione[62]. Non so dare una soluzione al problema di che cosa siano i due protista eidea di B 1, ma è chiaro che, se si seguono le interpretazioni correnti, essi non possono coincidere con gli eidea di cui parla B 4, dato che qui l'indagine sugli eidea è distinta dalla geometria. Forse, per intendere il significato di eidea in B 4, occorre percorrere un'altra strada: in B 4, tra l'altro, si parla genericamente di eidea, che non sono detti due né qualificati come protista. Un'ipotesi, che avanzo in via puramente congetturale, data la scarsità della documentazione, è che si debba guardare nell'alveo del pitagorismo e, precisamente, in direzione di Eurito, presentato da Diogene Laerzio come akoustés di Filolao e associato a Crotone o Metaponto come luogo di origine, ma talvolta anche a Taranto[63].

5. Archita e Eurito

Che il tentativo di collegare Archita a Eurito non sia del tutto arbitrario è confermato dal fatto che era Archita stesso, stando a Teofrasto, a descrivere una procedura seguita da Eurito, consistente nel disporre alcune pséphoi - i sassolini con i quali si effettuavano calcoli - e nel dire: questo è il numero di uomo, questo di cavallo e così via[64]. È chiaro che questo passo teofrasteo è in qualche modo connesso con un passo della Metafisica aristotelica, dove si afferma che non è stato definito in quale modo i numeri siano cause delle sostanze e dell'essere. Uno dei due modi indicati da Aristotele poggia sul concetto di consonanza (symphonia), intesa come rapporto (logos) di numeri, mentre l'altro consiste nel considerare i numeri come limiti (horoi). In relazione a quest'ultimo modo, Aristotele, accanto all'esempio dei punti come limiti delle grandezze, introduce il riferimento a Eurito, il quale disponeva - il verbo etatte comporta una disposizione in senso spaziale - quale numero è proprio di ciascuna cosa, per esempio quale è di uomo, quale di cavallo: come fanno "quelli che riconducono i numeri alle figure (schemata) di triangolo e di quadrato, così egli faceva, assimilando (aphomoiòn) mediante le psephoi le forme (morphaì) degli <animali e> piante"[65]. Un tentativo di chiarimento di questo passo si trova nel commento dello Pseudo-Alessandro (ossia Michele di Efeso), che Burkert giudica di dubbia autenticità, ma che con Barnes ritengo non sia del tutto sprovvisto di senso, pur essendo probabilmente più un'interpretazione che un resoconto[66]. Esso suona così: "sia posto a scopo di ragionamento (keistho logou charin) limite (horos) dell'uomo il numero 250 e quello di pianta 360. Posto (theis) ciò, egli prendeva 250 psephidas, alcune verdi, altre nere, altre rosse e in generale di svariati colori. Poi, spalmando il muro di calce viva e disegnandovi un abbozzo (skiagraphòn) di uomo e di pianta, così conficcava alcuni di questi sassolini nella skiagraphia del volto, altri in quella delle mani, altri in altre parti e completava quella (sc. skiagraphia) dell'uomo imitato (mimoumenos) mediante sassolini uguali di numero alle unità, che diceva horizein l'uomo"[67]. Pseudo-Alessandro interpreta il tattein il numero per ciascun oggetto, di cui parlava Aristotele, come un'operazione effettuata a puro scopo argomentativo, ma ciò potrebbe far intendere che la scelta di tale numero fosse arbitraria e puramente strumentale rispetto allo scopo di dimostrare l'assunto generale che a ogni oggetto corrisponde un numero, non importa quale esso sia[68]. Sembra però chiaro da Aristotele e Teofrasto che la procedura di Eurito pretendeva di fissare univocamente il numero preciso per ciascun oggetto. Resta da chiedersi su quale base Eurito determinasse preliminarmente tale numero, qualora lo avesse fatto prima di tracciare il disegno. Se invece lo faceva successivamente, si potrebbe pensare che tale determinazione consistesse nella somma dei sassolini impiegati. Il testo di Teofrasto sembra far propendere per quest'ultima soluzione, mentre quello di Aristotele è meno chiaro e proprio per questo forse pseudo-Alessandro introduceva la propria interpretazione in termini di "scelta arbitraria". Anche il testo di Aristotele tuttavia è interpretabile sulla linea di quello teofrasteo, considerando il numero come risultato dell'operazione di assimilare mediante le psephoi le forme degli oggetti. Questo aphomoioun è inteso da Pseudo- Alessandro come una skiagraphia, letteralmente pittura a ombre. Talora questo termine è interpretato come una sorta di abbozzo, delineante i contorni dell'oggetto[69]. Occorre però precisare che questo abbozzo doveva assumere la forma di una rappresentazione non solo bidimensionale, ma tridimensionale, data la connessione tra la skiagraphia e una qualche forma di quella che noi chiamiamo prospettiva e scenografia teatrale. L'attribuzione di una procedura di skiagraphìa a Eurito non è cronologicamente assurda, dal momento che Vitruvio menziona i nomi di Anassagora e Democrito in connessione all'invenzione della scenografia teatrale[70]. Ma, a differenza di quanto paiono dire Aristotele e Teofrasto, in pseudo-Alessandro il disegno di Eurito non è fatto mediante i sassolini: questi sono introdotti in un momento successivo, a disegno fatto. Solo quando tutti i sassolini di vari colori sono stati collocati, si ha la mimesis dell'oggetto in questione. È verosimile che pseudo-Alessandro avesse presente, per quest'ultimo punto, l'attribuzione aristotelica ai Pitagorici della tesi che le cose sono per imitazione dei numeri, oltre a quella dei punti come numeri aventi posizione[71]. Le morphaì, di cui aveva parlato Aristotele, erano in tal modo intese come una rappresentazione pittorica, tridimensionale, alla quale dovevano contribuire i diversi colori dei sassolini, anche se non è chiaro se allo scopo di distinguere meglio le varie parti, almeno quelle salienti, o per far risaltare meglio la tridimensionalità.

I tre testi riguardanti la procedura di Eurito non dicono dove fossero collocati i sassolini, se riempivano l'intero oggetto disegnato o se erano posti solo nei contorni. A propendere per quest'ultima interpretazione induce il fatto che Aristotele la menziona come esemplificazione della concezione dei numeri cause delle sostanze in quanto horoi, ossia limiti che circoscrivono e delimitano l'oggetto. Anche questa interpretazione però si scontra con la difficoltà che, variando le dimensioni dell'oggetto disegnato, dovrebbe variare il numero dei sassolini impiegati per coprire l'intero contorno e quindi non esisterebbe un numero determinato per ciascun oggetto. Era forse una considerazione del genere che conduceva pseudo-Alessandro a considerare puramente convenzionale, a scopo argomentativo, la scelta di un numero per ciascun oggetto da parte di Eurito. L'interpretazione più verosimile è invece che i sassolini fossero collocati non sull'intero contorno, ma soltanto nei punti nodali, strutturali, della figura, quelli che consentivano d'individuarla senza confonderla con altri tipi di oggetti: in tal modo poteva essere garantita l'assegnazione di un numero fisso per ciascun oggetto[72]. Mi pare allora plausibile in questo contesto l'osservazione di Guthrie, secondo cui Eurito si poneva l'obiettivo di trovare il numero minimo di punti necessari a individuare un uomo o un cavallo[73]. Che la procedura di Eurito non fosse così cervellotica o ingenua come potrebbe apparire può essere mostrato da qualche esempio parallelo. Intanto si può ricordare che lo scritto di Archimede, intitolato stomachion, di cui sono pervenuti solo alcuni frammenti, aveva come punto di riferimento una sorta di puzzle con pezzi di avorio, modellati secondo figure piane, in modo da imitare le forme di esseri umani, animali e così via[74]. Per altro verso anche Aristotele, nei suoi scritti sulla locomozione degli animali, faceva uso di rappresentazioni geometriche, interpretando come punti le giunture degli arti in movimento e individuando le figure geometriche, per esempio tipi di triangoli o diagonali, descritte nelle varie fasi della locomozione[75]. Rispetto a ciò la procedura di Eurito sembrava differenziarsi per il fatto di prendere in considerazione, più che figure piane in movimento, forme tridimensionali e statiche: per lo meno, le tre testimonianze non fanno alcun accenno al movimento. Occorre comunque sottolineare che gli oggetti a cui si fa riferimento nella procedura di Eurito sono classi omogenee di entità, specie, non entità individuali. Anche per questa ragione è possibile variarne le scala, mutando le dimensioni, ma conservandone immutata la forma e, quindi, il numero di punti mediante cui ciascuna è esprimibile e raffigurabile. A questo punto si potrebbe avanzare l'ipotesi che Archita, quando attribuiva alla logistica anche un'eventuale trattazione degli eidea, intendesse eidea proprio nel senso di forme e configurazioni di queste classi omogenene di oggetti e potesse avere come termine di riferimento proprio il procedimento di Eurito, il quale, per attestazione esplicita di Teofrasto, gli era sicuramente noto[76]. Ora, le psephoi usate da Eurito erano abitualmente gli strumenti impiegati per effettuare calcoli e dare rappresentazioni geometriche di tipi o serie di numeri. Ma Archita, non inconsapevole delle conseguenze generate dalla scoperta degli incommensurabili, per le quali non si poteva far uso di psephoi, dovette andare oltre questo piano. Non si dimentichi che in Aristotele la posizione di Eurito è distinta da quella che intende i numeri come causa delle sostanze, nel senso di rapporti (logoi) tra numeri. Sarebbe del tutto inverosimile scorgere qui un possibile riferimento proprio ad Archita?

Sulla linea della possibilità di rappresentare il corpo umano come un sistema di rapporti proporzionali costanti si era mosso nella seconda metà del V secolo anche lo scultore Policleto con il suo Canone[77]. Anche nel suo caso si trattava non tanto di assegnare una determinazione numerica fissa alle dimensioni di ciascun membro del corpo, quanto di conservare fissi determinati rapporti proporzionali tra le parti, indipendentemente dalla grandezza complessiva, maggiore o minore, della statua stessa. Centrali erano le nozioni di rapporto e di proporzione, come poi in Archita: grazie a tali nozioni il problema posto da Eurito poteva trovare una soluzione più soddisfacente. Che Archita nutrisse interesse per le forme degli enti sembrerebbe confermato da un passo dei Problemata pseudo-aristotelici, nel quale è posta la questione del perché le parti non organiche delle piante e degli animali siano tutte circolari (peripheré), come tronco e rami nelle piante, gambe cosce braccia e torace negli animali e né il corpo intero né alcuna parte sia un triangolo o un poligono. La risposta di Archita era che "nel moto naturale è insita la proporzione di uguaglianza (ten tou isou analogian); infatti tutto si muove secondo rapporto, ma solo questa ritorna su se stessa, sicché, quando ha luogo, produce cerchi e rotondità"[78]. Il passo è difficile da interpretare. Si tratta in primo luogo di capire che cosa intenda Archita per proporzione di uguaglianza. Verosimilmente è la media aritmetica, ma non è chiaro in che senso il moto naturale sia caratterizzato da questo tipo di proporzione. A prescindere da queste difficoltà, su cui non mi posso fermare in questa sede, resta che Archita connetteva la questione della forma della parti degli animali e dei vegetali con il problema del movimento (inteso come movimento generatore di tali forme) e affrontava quest'ultimo servendosi della teoria delle proporzioni. Non siamo ancora esplicitamente sul terreno della meccanica - non a caso le operazioni di Eurito riguardano uomo, animali, piante e in Policleto la figura umana - ma viene posto un problema essenziale anche per la meccanica costruttiva, quello di conservare costante la configurazione complessiva dell'oggetto, al di là delle variazioni di scala. La via della soluzione passava attraverso una teoria delle proporzioni[79], così come attraverso la ricerca di due medie proporzionali passava la soluzione del problema della duplicazione del cubo. Forse era questa la via percorsa da Archita in direzione della meccanica: avrebbe senso allora l'asserzione di Diogene Laerzio, che non a caso parlava di un impiego da parte di Archita di principi matematici in generale, e non di principi specificamente geometrici, nelle indagini meccaniche. Sono consapevole di aver così delineato una storia congetturale, ma, come ben sapevano i filosofi del Settecento, mancando dati e informazioni, siamo costretti a delineare storie congetturali. L'importante è che anche questa sia non del tutto inverosimile, ma in qualche modo compatibile con i pochi dati a nostra disposizione.


[*] Questo saggio è lo sviluppo della comunicazione presentata al convegno "L'eredità della mMagna Grecia" (Taranto, ottobre 1995) e sarà pubblicato negli atti del convegno stesso.

[1] Per un quadro generale cfr. P.L. Rose, The Italian Renaissance of Mathematics, Droz, Genève 1975, nonché P.D. Napolitani, Galilei e due matematici napoletani: Luca Valerio e Giovanni Camillo Gloriosi, in Galilei a Napoli, a cura di F. Lomonaco e M. Torrini, Guida, Napoli 1987, pp. 159-95. Naturalmente la continuità non deve indurre a occultare i tratti di discontinuità tra meccanica antica e moderna: su ciò cfr. per esempio S. Bochner, The Role of Mathematics in the Rise of Science, Princeton University Press, Princeton 1966, pp. 179-207 e soprattutto F. Krafft, Die Anfänge einer theoretischen Mechanik und die Wandlung ihrer Stellung zur Wissenschaft von der Natur, in Beiträge zur Methodik der Wissenschaftsgeschichte, hrsg. von W. Baron, Steiner, Wiesbaden 1967, pp. 12-33.

[2] A. Koyré, Studi galileiani, trad.it., Einaudi, Torino 1976, p. 75 n.68. Per un'esposizione più equilibrata del rapporto di Galileo con Archimede cfr. per esempio L. Geymonat, Galileo Galilei, Einaudi, Torino 19695, in part. pp. 42- 45. Contro l'errore storiografico di inferire automaticamente dall'antiaristotelismo degli scienziati rinascimentali un loro presunto platonismo cfr. J. Hoyrup, Archimedism, not Platonism: on a Malleable Ideology of Renaissance Mathematicians (1400-1600), and on its Role in the Formation of Seventeenth-Century Philosophoes of Science, in Archimede. Mito tradizione scienza, a cura di C. Dollo, Olschki, Firenze 1992, pp. 81-110, con un istruttivo riferimento a Pietro Ramo.

[3] Plutarco, Marcello 14, 8, nonché 14, 12-15 sull'episodio della messa in mare di una nave mediante un congegno a più pulegge, escogitato da Archimede, inteso come dimostrazione nei fatti della tesi archimedea di poter smuovere con una forza data un peso dato. Su questa nave, fatta costruire da Ierone e di cui Archimede era il geometres epoptes, cfr. il resoconto di Moschione, citato in Ateneo 206 d - 209 b, in particolare 206 d-207b, dove Archimede è anche detto "il meccanico". Sulle macchine da difesa costruite da Archimede cfr. Plutarco, Marcello 15-17, nonché il resoconto di Polibio VIII 5-9. In generale cfr. P. Culham, Plutarch on the Roman Siege of Syracuse: the Primacy of Science over Technology, in Plutarco e le scienze, a cura di I. Gallo, Sagep, Genova 1992, pp. 179-97.

[4] Marcello 17, 5.

[5] Ib. 17, 6-8.

[6] Ib. 17, 11. Cfr. anche An seni res publica gerenda sit 5, 786 c, dove questo stesso fatto è presentato come esempio del piacere totale ricavabile da attività intellettuali.

[7] In Plutarco, Marcello 19, 8-11 sono riportate tre versioni della vicenda. La terza pare distinguersi dalle prime due in quanto mira ad accreditare l'immagine di un Archimede filomeccanico. Infatti sarebbe stato ucciso per sbaglio da un soldato che lo vede portare uno scrigno, che egli immagina pieno d'oro, mentre in realtà contiene strumenti meccanici e astronomici.

[8] Archimede II, 274, 7-9 Heiberg.

[9] Pappo VIII, Praef. 1-3, pp. 1022,3 - 1028, 3 Hultsch.

[10] Cfr. A. Virieux-Raymond, Le platonisme d'Archimède, "Revue philosophique" 104, 1979, pp. 189-92 e J.L. Gardies, La méthode méchanique et le platonisme d'Archimède, ib., 105, 1980, pp. 39-43. Per un'analisi della posizione di Plutarco in generale cfr. M. Isnardi Parente, Plutarco e la matematica platonica, in Plutarco e le scienze cit., pp. 121-45.

[11] Cfr. G. Cambiano, Scoperta e dimostrazione in Archimede, in Archimede cit., pp. 21-41.

[12] Plutarco, Marcello 14,9-11. Nelle Questioni conviviali VIII 2, 718 e-f, ad Eudosso e Archita è affiancato Menecmo e la loro comune posizione, consistente nella riduzione della geometria a meccanica, è contrapposta a quella di Filolao, che aveva definito la geometria arché e metropolis ton allon (dove generalmente si sottintende mathematon). Non è affatto sicuro che tra questi mathemata Filolao includesse già la meccanica, ma è in questo senso che Plutarco intende l'asserzione di Filolao, anche se in Marcello 14,9 egli presenta Eudosso e Archita come iniziatori dell'organiké.

[13] La posizione di Eratostene è ricostruibile in base ad una sua epistola al re Tolomeo, seguita da un epigramma votivo della sua scoperta, tramandati da Eutocio nel suo commento al secondo libro di Sfera e cilindro di Archimede (cfr. Archimede III, 88, 3 - 96,27 Heiberg). U. von Wilamowitz-Moellendorff, Ein Weihgeschenk des Eratosthenes, "Göttinger Nachrichten" 1894, ripubblicato in Kleine Schriften, Akademie Verlag, Berlin 1971, vol. II, pp. 48-70, avanzò una serie di dubbi sull'autenticità dell'epistola, mentre ritenne autentico l'epigramma. Argomentazioni convincenti a favore dell'autenticità ha ora addotto W.R. Knorr, The Ancient Tradition of Geometric Problems, Birkhäuser, Boston - Basel - Stuttgart 1986, pp. 2-23.

[14] Teone 2, 3-12 Hiller.

[15] Eutocio (in Archimede III, 56, 13 - 58,14 Heiberg) riporta una soluzione, attribuita a Platone, la quale comporta l'uso di uno strumento meccanico, proprio come quella di Eratostene. Ciò ha posto problemi sull'attendibilità di questo resoconto, che pare incompatibile con la filosofia platonica. W.R. Knorr, op. cit., pp. 57-59, ha ipotizzato che si potesse trattare di un metodo inventato da Eratostene, ma non sotto il nome di Platone e in seguito associato a Platone. Ma ciò non spiega ancora perché si ritenne di doverlo associare a Platone.

[16] Cfr. anche l'analisi di A. Georgiadou, The Corruption of Geometry and the Problem of Two Mean Proportionals, in Plutarco e le scienze cit., pp. 147-64.

[17] Cfr. F. Solmsen, Erathostenes as Platonist and Poet, in "Transactions of the American Philological Association" 73, 1942, pp. 192-213, ripubblicato in Kleine Schriften, Olms, Hildesheim 1968, vol. I, pp. 203-224.

[18] A. C. Bowen, Menaechmus versus the Platonists: Two Theories of Science in the Early Academy, "Ancient Philosohy" 3, 1983, pp. 12-29, argomenta che Platone non avrebbe obiettato all'uso di strumenti in geometria e, quindi, considera inattendibile la testimonianza di Plutarco, il quale attribuirebbe a Platone una posizione assunta poi nell'Accademia in risposta a Menecmo. La fioritura di indagini meccaniche nell'Accademia pare attestata, sulla base di Dicearco, anche in Filodemo, PHerc. 1021 (Acad. ind.) V 2-17.

[19] Cfr. G. Cambiano, Archimede e la crescita della geometria, in La scienza ellenistica, a cura di G. Giannantoni e M. Vegetti, Bibliopolis, Napoli 1984, pp. 129-49.

[20] Per la documentazione su questo punto rinvio a E.J. Dijksterhuis, Archimede, trad. it., Ponte alle Grazie, Firenze 1989, pp. 17-25; A. G. Drachmann, The Mechanical Technology of Greek and Roman Antiquity, Munksgaard, Copenhagen 1963 e soprattutto la critica all'interpretazione di Plutarco da lui svolta in Archimedes and the Science of Physics, "Centaurus" 12, 1968, pp. 1-11; I. Schneider, Archimedes. Ingenieur, Naturwissenschaftler und Mathematiker, Wissenschaftliche Buchgesellschaft, Darmstadt 1979, con ricca bibliografia.

[21] Cfr. Paolo Rossi, I filosofi e le macchine (1400-1700), Feltrinelli, Milano 1962, pp. 63-65 e G. Micheli, Le origini del concetto di macchina, Olschki, Firenze 1995, pp. 153-67. Per la persistenza dell'immagine di un Archimede contemplativo cfr. per esempio G. Bruno, De gli eroici furori, a cura di S. Bassi, intr. di M. Ciliberto, Laterza, Roma-Bari 1995, p. 123.

[22] Cfr. W. Stein, Der Begriff des Schwerpunktes bei Archimedes, "Quellen und Studien zur Geschichte der Mathematik, Astronomie und Physik", Abt. B, Bd. 1, 1930, pp. 221-44, ripubblicato in Zur Geschichte der griechischen Mathematik, a cura di O. Becker, Wissenschaftliche Buchgesellschaft, Darmstadt 1965, pp. 76-99; A.G. Drachmann, op. cit., p. 109 e D. Galletto, La teoria della leva nell'opera di Archimede e la critica ad essa rivolta da Mach, in Archimede cit., pp. 423-24.

[23] Cfr. però W.R. Knorr, op. cit., p. 188, dove non si esclude una possibile origine archimedea del metodo di soluzione indicato nella Meccanica di Erone.

[24] In Archimede III, 90, 11-27 Heiberg.

[25] Si vedano i testi in E.W. Marsden, Greek and Roman Artillery. Technical Treatises, Clarendon Press, Oxford 1971, pp. 40-41, 110. Sul problema delle variazioni in scala del modello cfr. G. A. Ferrari, Meccanica "allargata", in La scienza ellenistica cit., pp. 225-96, soprattutto 244 sgg.

[26] Cicerone, Repubblica I, 17, 29; Vitruvio VI, praef. 1; Galeno, Protrettico 5. Cfr. Aristotele, Metafisica B 2, 996 a 29- 36.

[27] Sulle vicende dell'ultimo Pitagorismo cfr. F. Prontera, Gli "ultimi Pitagorici". Contributo ad una revisione della tradizione, "Dialoghi di archeologia", 9-10, 1976-77, pp. 267-332.

[28] Giamblico, de communi mathematica scientia 23, p. 70, 1-3 Festa; Proclo, in primum Euclidis Elementorum librum 65, 16-19. Ma sulle differenze nelle concezioni della matematica di Giamblico e Proclo cfr. I. Mueller, Iamblichus and Proclus'Euclid Commentary, "Hermes" 115, 1987, pp. 334-48.

[29] Giamblico, op. cit., 22, pp. 68, 5 - 69, 10 Festa.

[30] Ib. 22, p. 69, 13-26 e 30, p. 91, 3-6 Festa. Lo scolio al primo passo chiosa: "quella di Euclide, Archimede, Tolomeo e i sapienti del genere" (p. 103 Festa).

[31] Ib. 24, p. 75, 20-22.

[32] V. Capparelli, La sapienza di Pitagora, Cedam, Padova 1941, vol. I, p. 11.

[33] Cfr. G.E.R. Lloyd, Plato and Archytas in the Seventh Letter, "Phronesis", 35, 1990, pp. 159-74, secondo cui l'obiettivo dell'autore della Lettera sarebbe di liberare Platone da dipendenze e debiti dottrinali nei confronti del Pitagorismo. A favore di questa tesi può militare il fatto che nella Lettera sono messi in rilievo i limiti epistemologici della definizione di cerchio (342 b 6 - c 1, 343 b 4-6). L'interesse di Archita per il problema delle definizioni è attestato in Aristotele, Metafisica H 2, 1043 a 19-22.

[34]Cfr. G. Cambiano, La nascita dei trattati e dei manuali, in Lo spazio letterario della Grecia antica, a cura di G. Cambiano, L. Canfora, D. Lanza, Salerno, Roma 1992, vol. I, pp. 525- 553.

[35] Cfr. in particolare Diodoro XIV, 41, 3; 42, 1; 50, 4.

[36] M. Timpanaro Cardini, I Pitagorici, La Nuova Italia, Firenze 1962, vol. II, p. 264 nota.

[37] Ateneo XIV 634 b, dove la notizia è riferita come attinta dal primo libro dei Mechanikà di Mosco, forse da identificare col Moschione citato in V 206 d sgg. a proposito della nave sollevata dai congegni di Archimede. Secondo E.W. Marsden, op.cit., pp. 90-92, Eraclide, più che l'inventore della sambuca, sarebbe colui che l'avrebbe adattata su coppie di navi. Sarebbe tentante identificare questo Eraclide con l'omonimo biografo di Archimede (menzionato da Eutocio: cfr . Archimede vol. III, p. 228, 20-21 Heiberg), il quale attribuiva allo scritto archimedeo Misura del cerchio, di natura puramente geometrica, un'utilità per la vita. Questa affermazione sarebbe compatibile con l'attività tecnica di Eraclide di Taranto. Nella prefazione a Spirali Archimede menziona un altro Eraclide, forse identificabile con il biografo.

[38] I testi in E.W. Marsden, op. cit., pp. 74 e 76.

[39] Giamblico, Vita pitagorica 267. Cfr. H. Diels, Antike Technik, Teubner, Leipzig-Berlin, 19202, pp. 18-22. Per la vita di Archita di Aristosseno cfr. fr. 47-50 Wehrli, dove però non si parla della sua attività scientifica, e fr. 30 Wehrli sul padre Spintaro.

[40] Proclo, in Eucl. p. 66, 14-18 Friedlein.

[41] Vitruvio I, 1, 17.

[42] Ib. IX, praef. 6, 9-15.

[43] Ib. VII, praef. 14. Cfr. anche Ateneo meccanico 4.12 Wescher e Teofilatto di Ochrida Ep. 71 (Migne PG 126, 493 A-B), ripubblicati come A 3O A e B in C. Huffman, Philolaos of Croton Pythagorean and Presocratic, Cambridge University Pressa, Cambridge 1993, con il commento a pp. 418-20.

[44] P. Tannery, La géométrie grecque, Gauthiers-Villars, Paris 1887, pp. 126-28.

[45] Cfr. H. Schneider, Das griechische Technikverständnis. Von den Epen Homers bis zu den Anfängen der technologischen Fachliteratur, Wissenschaftliche Buchgesellschaft, Darmstadt 1989, pp. 228-9. Sulla meccanica di Archita cfr. anche E. Frank, Plato und die sogenannten Pythagoreer, Wissenschaftliche Buchgesellschaft, Darmstadt 1962 (reprint della prima edizione, Halle 1923), pp. 236-38, il quale però eccede nell'attribuire a Archita le cinque parti in cui la meccanica sarebbe stata in seguito suddivisa. Importante invece il saggio già citato di F. Krafft.

[46] Gellio X, 12, 8. Cfr. la rassegna di spiegazioni in M. Timpanaro Cardini, op. cit., vol. II, pp. 290-292 nota. Si tenga conto in questo contesto dell'attenzione di Archita per i suoni prodotti da emissione di pneuma negli auloì e nelle canne con fori, documentata in B 1 (cfr. in seguito n. 50).

[47] Cfr. F. Franco-Repellini, Tecnologia e macchine, in Storia di Roma, Einaudi, Torino 1989, vol. IV, pp. 323-68, in part. p. 331.

[48] Aristotele, Politica VIII 6, 1340 b 24-28, da leggere insieme a Suda s.v. Archita (DK 47 A 2) e ad Eliano V.H. XII 15 su Archita che gioca con i bambini dei suoi schiavi. Un riferimento ad essa come giocattolo di fanciullezza anche in un epigramma di Leonida di Taranto (A.P. VI 309 = 45 Gow-Page): cfr. M. Gigante, L'edera di Leonida, Morano, Napoli 1971, pp. 71-73, e M. Timpanaro-Cardini, op.cit, II, p. 289 nota, che riferisce di ipotesi su come fosse fatta. Cfr. anche in B 1 il riferimento ai romboi, che sarebbero pezzi di legno o metallo ruotanti in punta a una corda (cfr. A. Barker, Greek Musical Writings, Cambridge University Press, Cambridge 1989, vol. II, p. 41 n.51).

[49] Diogene Laerzio VIII 79.

[50] Dubbi sull'autenticità di B 1 sono espressi da W. Burkert, Lore and Science in Ancient Pythagoreanism, trad. ingl., Harvard University Press, Cambridge Mass. 1972, pp. 379-80, n.46. A favore dell'autenticità ha argomentato A.C. Bowen, The Foundations of Early Pythagorean Harmonic Science: Archytas, Fragment 1, "Ancient Philosophy" 2, 1982, pp. 79-104; cfr. anche C.A. Huffman, The Authenticity of Archytas Fr. 1, "Classical Quarterly", 35, 1985, pp. 344-48.

[51] Diogene Laerzio VIII 83. Non c'è base sicura per attribuire queste informazioni a Aristosseno, né per inferire dal testo di Diogene un rapporto di conseguenza tra l'uso di principi nelle indagini meccaniche e l'introduzione del movimento, come invece fa A.C. Bowen, Menaechmus cit. , p. 22 (cfr. anche p. 28 n. 40).

[52] Cfr. Aristotele, Analitici secondi I 9, 76 a 22-25; I 13, 78 b 34-39 e cfr. I 14, 79 a 23-24.

[53] Se si tratta di un riferimento alla tradizione pitagorica, si potrebbe pensare ai mathematikoì in quanto distinti dagli akousmatikoì, ma forse non è corretto restringere il riferimento ai soli Pitagorici.

[54] La distinzione pare richiamare quella aristotelica fra ta katholou e ta katà meros, il che potrebbe militare a favore della non autenticità del frammento.

[55] In Giamblico (de communi mathematica scientia 7, p. 31, 4-10 Festa; in Nicomachi arith. p. 9, 1-7 Pistelli) l'affermazione di Archita è affiancata dall'asserzione del divino Platone sull'esistenza di un syndesmon tra i mathemata (il riferimento è all'Epinomide 991 e - 992 a).

[56] DK 44 A 7. Forse a ragione C.A. Huffmann, op. cit., pp. 198-99, non considera questo testo in contrasto con la tesi di Filolao che il numero è ciò che ci permette di conoscere le cose, ma non mi convince il suo tentativo di interpretarlo come un riconoscimento del fatto che la geometria del suo tempo, per la sua struttura dimostrativa, era il modello per organizzare la nostra conoscenza. Una via d'uscita potrebbe invece essere fornita, se s'intende arché non tanto nel senso di primato o modello, quanto come il punto di partenza, la matrice da cui si dipartono le altre discipline (questo senso pare rafforzato anche dall'altro termine metropolis, che presuppone una distinzione tra patria d'origine e "colonie"). Del resto, lo stesso Huffman, ib, p. 307 (ma cfr. anche 322), intende nel senso di "origine" l'archà che ricorre in Filolao B 13, da lui ritenuto autentico. Se s'intende arché in questo significato, allora l'affermazione di Filolao non contrasta con la tesi di Archita sul primato della logistica, dal momento che questo primato è riposto da Archita nel fatto di "portare a compimento" ciò che non è realizzato dalle altre discipline.

[57] È da notare qui l'uso di dokei come formula introduttiva, che è tipica anche di B 1 e potrebbe essere consueta dello stile espositivo architeo. Qualche dubbio può essere invece prodotto dall'uso del termine pragmateia nel senso di trattazione, ben attestato in Platone (cfr. soprattutto Repubblica 528 d, dove così è qualificata la geometria) e in Aristotele, ma assente nei presocratici. Non si deve tuttavia dimenticare che Archita è contemporaneo di Platone.

[58] Sul significato corrente di logismòs, derivato dalla partica del calcolo, in particolare del calcolo degli interessi, cfr. W. Burkert, op. cit, pp. 438-40 e sul significato di logistica nei dialoghi platonici, come determinazione di relazioni quantitative tra numeri, distinta dall'aritmetica come "contare", cfr. I. Mueller, Mathematics and Education: Some Notes on the Platonic Program, "Apeiron" 24, 1991, pp. 85-104. Mueller dubita però dell'autenticità del fr. 4 di Archita, da lui inteso nel senso che "la logistica produce risultati veri dove la geometria ne produce di falsi"; ma in B 4 non si fa alcun cenno all'opposizione vero-falso.

[59] Cfr. B. L. van der Waerden, Die Arithmetik der Pythagoreer, "Mathematische Annalen" 120, 1947-49, pp. 127-53 e 676-700, ripubblicato in Zur Geschichte der griechischen Mathematik cit., pp. 203-254, in particolare p. 150=p. 226, nonché Science Awakening, trad. ingl., Noordhoff, Groningen 1954, pp. 150, 152-53, 155; W. Burkert, op. cit, pp. 220-221 n. 14.

[60] In B 3 logismòs è il calcolo che fa cessare i conflitti e genera la homonoia nella città, introduce l'uguaglianza e elimina la pleonexia, operazioni che, al di là del semplice calcolare, comportano un riferimento a logoi e proporzioni.

[61] In Giamblico la parentela fra le discipline è fatta dipendere dal fatto di occuparsi di hypokeimena (un vocabolo che pare di matrice aristotelica) adelphà, ossia di posòn e pelikon (de comm. math. 7, in part. pp. 30,1-31, 7 Festa). La sua citazione del fr. 1 di Archita si arresta però prima del riferimento ai duo protista eidea; questi ricorrono invece nel testo citato da Porfirio (in Ptol. Harm., p. 56 sgg.) e da Nicomaco (Inst Arith I 3, 4, p. 6,16 sgg. Hoche), che non spiegano che cosa essi siano. Gli interpreti tendono talora a identificarli con il posòn e il pelikon di cui parla Giamblico, ma questa nozione di due forme primissime appare tardiva e sospetta sia a Burkert, sia a Huffmann. A. Barker, op. cit, vol. II p. 40 n. 44 avanza l'ipotesi che esse possano identificarsi con i due moti che riguardano il visibile e l'invisibile, studiati rispettivamente da astronomia e musica, ma senza che ciò implichi la distinzione platonica tra percepibile e puramente intellegibile.

[62] Così già Diels, con riferimento a Filolao B 5, dove si parla di due idia eide del numero (distinti dal parimpari) e si afferma che di ciascuno di essi esistono molte morphaì. Cfr. anche E. Frank, op. cit., p. 127. Sull'interpretazione di questo frammento di Filolao cfr. ora C.A. Huffman, op. cit, pp. 177-93.

[63] Come originario di Taranto è presentato in Giamblico, Vita pitagorica 267 (DL VIII 46 e Vitruvio I, 1, 16 presentano anche Filolao come originario di Taranto).

[64] Teofrasto, Metafisica 6 a 15-22. Non ha fondamento la tesi di E. Frank, op. cit., pp. 125 e 378 n. 360, secondo cui Eurito sarebbe un personaggio fittizio di uno scritto di Archita, sicché la tesi attribuitagli da Teofrasto sarebbe propria di Archita stesso. Su una presunta ironia di Teofrasto nei confronti di Eurito cfr. il commento di Ross-Fobes ad loc. e W. Burkert, op. cit. , p. 47 n. 107; ma contro ciò cfr. A. Laks e G.W. Most nella recente edizione delle Belles Lettres, Paris 1993, p. 43 n. 75.

[65] Aristotele, Metafisica XIV 5, 1092 b 8-15. A. Bélis, Le procédé de numération du Pythagoricien Eurytos, "Revue des Etudes Grecques" 96, 1983, pp. 64-75, in part. 66-70 ha argomentato che l'integrazione di Christ <zoon kaì> non è necessaria. Si può presumere che anche Metafisica I 9, 991 b 10-11 contenga un'allusione a Eurito, ma qui si ipotizza l'esistenza di un numero assegnabile addirittura a individui come Socrate o Callia. Non bisogna dimenticare che sia Aristotele, sia Teofrato discutono la procedura di Eurito in connessione alla dottrina delle idee e delle idee-numeri. Sul contesto e sulla valutazione negativa da parte di Aristotele della procedura di Eurito cfr. J. Annas, Interpretazione dei libri M-N della "Metafisica" di Aristotele, trad.it., Vita e Pensiero, Milano 1992, p. 261.

[66] W. Burkert, op. cit., p. 41 n. 69; J. Barnes, The Presocratic Philosophers, Routledge & Kegan , London 1979, vol. II, pp. 88- 89.

[67] Ps. Alessandro p. 827, 9-26 Hayduck.

[68] A. Laks, Eurytus in Theophrastus'Metaphysics, contenuto in A.Laks, G.W. Most, E. Rudolph, Four Notes on Theophrastus'Metaphysics, in Theophrastean Studies. On Natural Science, Physics and Metaphysics, Ethics, Religion and Rhetoric, a cura di W.W. Fortenbaugh e R.W. Sharples, "Rutgers Studies in Classical Humanities" III, New Brunswick-Oxford 1988, pp. 251-52 n.48, ha ritenuto più naturale che fosse Pseudo-Alessandro a scegliere i numeri, mediante i quali spiegare il procedimento di Eurito. Occorre però tener conto anche del partecipio theìs, che sembra implicare che a stabilire i numeri fosse Eurito stesso.

[69] In questo senso interpretano W. Burkert e J. Barnes (cfr. n. 66), mentre A. Bélis, art. cit., pensa che il riferimento sia alla tecnica del mosaico e quindi ad un riempimento dell'intera figura mediante psephoi. Nel senso di "shadow drawing" e, quindi, come rappresentazione tridimensionale l'intende invece W.K.C. Guthrie, A History of Greek Philosophy, Cambridge University Press, Cambridge 1967, vol. I, p. 274 n. 1. M. Timpanaro Cardini, op.cit., II, p. 256 nota, ipotizza che i colori diversi servissero a dare l'impressione di tridimensionalità. M. van Raalte, Theophrastus. Metaphysics, Brill, Leiden 1993, p. 255 ritiene che Eurito intendesse stabilire anche distinzioni qualitative, in quanto i diversi colori erano usati per distinguere le varie parti (ma questo non è detto esplicitamente nel testo di Pseudo-Alessandro).

[70] Cfr. Vitruvio VII praef. 11. Per la nascita di Eurito collocabile fra il 450 e il 440 a.C. cfr. C.A. Huffman, op.cit., p. 4.

[71] Cfr. Aristotele, Metafisica I 5, 985 b 23-986 a 6 sulla presenza nei numeri di molti homoiomata con gli enti (in questo contesto ricorre anche il verbo aphomoiousthai, usato, come si è visto, anche a proposito di Eurito) e I 6, 987 b 11-18 sulla mimesis, nonché XIII 6, 1080 b 16-21 sulla non separabilità dei numeri dai sensibili e sulla tesi che i numeri hanno megethos.

[72] In questo senso interpreta J.E. Raven, Pythagoreans and Eleatics, Cambridge University Press, Cambridge 1945, pp. 103-106; cfr. anche M. Timpanaro Cardini, op. cit., vol. II, p. 255 nota e W. Burkert, op. cit., pp. 41-42.

[73] Op. cit., vol. I, p. 274. Anche J. Barnes, op. cit, vol. II, p. 89 sottolinea la matrice geometrica del ragionamento di Eurito, come estensione a figure stereometriche, quali piante e animali, di considerazioni del tipo: tre punti determinano un triangolo.

[74] Per la documentazione cfr. E.J. Dijksterhuis, op. cit., pp. 328-330.

[75] Cfr. Historia animalium I 5, 490 a 26-b 6 e soprattutto De motu animalium, dove dall'hos phasì di 698 a 26-27 si può inferire che Aristotele riteneva di non essere il primo a usare questa procedura. Cfr. anche De incessu animalium, dove tra i problemi da affrontare è indicato quello di individuare con quanti punti minimi gli animali si muovono (cfr. 1, 704 a 10-16 e b 7-8 sul perché i quadrupedi si muovono in diagonale).

[76] Non è chiaro, dall'espressione usata "una volta Archita disse" (pot'ephe), se Teofrasto fosse a conoscenza di questo fatto per trasmissione orale o attraverso qualche resoconto scritto, magari dello stesso Archita. Si è ipotizzato che ciò potesse avvenire nello scritto di Archita intitolato Diatribaì, in cui egli doveva introdurre se stesso a parlare in prima persona (cfr. M. van Raalte, op.cit, p. 256). Se così fosse, sarebbe interessante ricordare che il fr. 4 di Archita, sul primato della logistica, è citato da Stobeo come proveniente dalla Diatribai.

[77] Cfr. J.E. Raven, Polyclitus and Pythagoreanism, "Classical Quarterly" 45, 1951, pp. 147-52 e G. Cambiano, La nascita dei trattati e dei manuali cit., pp. 525-26.

[78] Problemata XVI 9, 915 a 25-33. Talora, per es. da A. Maddalena e da H. Flashar nelle loro traduzioni rispettivamente dei frammenti dei Pitagorici e dei Problemata, il tauten è riferito a kinesis, ma è più verosimile il riferimento all'immediatamente precedente analogìa (così intendono il traduttore Loeb, W.H. S. Hett, e M. Timpanaro Cardini, che però traduce analogia con rapporto, anziché con proporzione). In questione sarebbe la media aritmetica, definita da Archita stesso in B 2, come quella nella quale il primo termine eccede il secondo di tanto quanto il secondo eccede il terzo. Resta da spiegare in che senso il moto naturale avverrebbe secondo questa proporzione e coinciderebbe con il moto circolare che dà luogo alla formazione delle parti circolari dei corpi vegetali e animali. E. Frank, op. cit, p. 126 ha ragione nel sottolineare la centralità del concetto di movimento nelle indagini di Archita, ma identifica il movimento con una sorta di energeia, "lebende Kraft", forse proprio sulla base di questo passo dei Problemata, che egli considera autentico (cfr. pp. 378-79 n.365). L'interesse di Archita per il problema della cause del moto, individuate nella disuguaglianza e irregolarità (anomalon), è chiaramente attestato da Eudemo in Simplicio, in Phys. 431, 8 sgg. , dove il termine di confronto è la teoria del Timeo platonico (cfr. 57 e 2 - 58 c 4). Su ciò cfr. F. Krafft, art. cit., pp. 23-24.

[79] I meccanici posteriori sottolineeranno che nella costruzione effettiva di congegni occorre tener conto anche dell'attrito dei materiali e occorre quindi provare e riprovare, ossia la peira (cfr. Filone di Bisanzio in E.W. Marsden, op. cit, pp. 106-108).


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