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Arachnion n. 2.1, May 1996


Tertulliano e la «Bibbia di S. Paolo» [*]

di LUCIANO CANFORA (Bari)


Tra le testimonianze latine omesse nella raccolta di Wendland si deve ricordare anche il finale del Prologus in esametri che figura al principio della cosiddetta «Bibbia di San Paolo». Il manoscritto della Vulgata in cui si legge tale Prologus, databile all'anno 877, è uno dei tesori della Basilica di San Paolo fuori le mura[1].

Nell'ultima parte del Prologus, l'autore (che parrebbe aver concepito questo suo componimento appunto per questo esemplare della Vulgata) traccia un profilo sommario delle traduzioni dell'Antico Testamento, che culmina in uno speciale elogio del lavoro di Girolamo come interprete e come filologo. I versi che più hanno affaticato gli interpreti sono i seguenti (64-74):

64 Actibus ex priscis, quibus est translatio sena
65 impenso studio Ptholomei bibliothecae
66 Aeolicis eius transmissae tempore libris.
67 Extitit hinc Origenis acer studioque notandus
68 praecluis expositor, Graecali famine promptus;
69 nec modico sumptu pendebat pagina dives,
70 quam variare stilis instabat Graecia tantis.
71 Hieronymus tamen haud potuit hunc ferre laborem
72 contulit ergo suis compendia magna Latinis,
73 dum nemus auricomum fulgenti stringit ab ore
74 Iudaico panditque iubar stellaque veruque.
75 Possidet ergo decus merito venerabile semper
76 Hieronymus pollens Latiari stemmate multum
(seguita con l'elogio di Girolamo).


Prima dei versi 64 e seguenti lo scriba Ingobertus si presenta al lettore e si definisce «scriba fidelis»[2]. Dopo questa sua «firma», colloca il profilo di storia delle traduzioni. Perciò il primo verso di questa che potrebbe considerarsi una seconda parte del carme (v.64: «Actibus ex priscis quibus est translatio sena») va considerato come un capitulum allo stesso modo che il primo verso del componimento («Omnipotentis opus, quod continet iste libellus»)[3]. Il senso del capitulum del v.64 è, quindi: «Con quali antichi testi si è costituita la translatio sena», cioè l'edizione esaplare della Bibbia.

Dopo il capitulum l'esposizione si sviluppa con ordine:

Al Traube si deve l'intuizione che qui "bibliothecae" voglia dire «la Bibbia». Egli infatti parafrasava - ferma restando la complicanza del nesso tra il v.64 e il 65 -: «codices Bibliorum, Ptolemaei temporibus ex ardenti eiusdem voluntate translatorum». Su questa linea è anche Mariotti, p.39, il quale osserva anche che l'uso di bibliothecae in luogo di Bibliorum ovvero Bibliae «era imposto da ragioni metriche». L'insidia che metteva fuori strada gli interpreti era il nesso Ptholemei bibliothecae, che spingeva a vedere qui un riferimento esplicito alla Biblioteca di Alessandria. Essa, certo, è la cornice in cui si svolse la memorabile traduzione dell'Antico Testamento, ma non per questo deve necessariamente essere qui ricordata in modo esplicito[6].

In realtà è proprio il valore di bibliotheca (ovvero bibliothecae al plurale) = «Bibbia» (usuale, oltre tutto, in epoca carolingia[7]) che qui rende traducibile la frase. Peraltro è un uso risalente molto indietro nel tempo. Il capitolo De Bibliothecis di Isidoro (Etymologiae, VI,3) si apre appunto con tale accezione del termine:

Bibliotheca a Graeco nomen accepit, eo quod ibi recondantur libri. Nam biblíon librorum, théke repositio interpretatur. Bibliothecam Veteris Testamenti Esdras scriba post incensam Legem a Chaldaeis, dum Iudeai regressi fuissent in Hierusalem, divino afflatus Spiritu reparavit.

Ed anche l'esempio che Isidoro adduce subito dopo:

apud Graecos autem bibliothecam primus instituisse Pisistratus creditur, Atheniensium tyrannus,

si spiega, a ben riflettere, alla luce di un siffatto valore di bibliotheca come gruppo di libri costituenti un'opera capitale. L'equivoco (sia detto qui di passata) per cui una tradizione di lunghissima durata ha fantasticato di una vera e propria biblioteca fondata ad Atene da Pisistrato nasce proprio di qui. Infatti il merito che a Pisistrato si ascriveva era in realtà di aver raccolto e fatto riordinare i libri omerici confusos antea (Cicerone) ovvero sporáden tò prín (Anonymus Crameri). Nulla di comparabile dunque ad una fondazione di biblioteca nel senso in cui fecero ciò Aristotele nel Liceo e Tolomeo nel Museo. Il fatto è che le due frasi, se si intende bibliotheca allo stesso modo di bibliotheca Veteris Testamenti - sono equivalenti: la «biblioteca» che Pisistrato costituì era appunto la collezione omerica. Una volta persosi questo valore del termine, sorse la leggenda, di inesauribile vitalità, della biblioteca ateniese fondata da Pisistrato ed emulata poi da Tolomeo[8].

Ma torniamo al Prologus carolingio. Per l'autore di quegli esametri, un libro come l'enciclopedia di Isidoro sarà stato un testo formativo e capitale. Dunque il raffronto con Etymol. VI, 3,1-2, appare pertinente. Ma c'è anche un altro esempio, che va qui ricordato perché molto vicino al verso del poeta carolingio, tra l'altro per il riproporsi del nesso Ptolemaei bibliothecae. È il capitolo 18 dell'Apologetico di Tertulliano: un passo in genere frainteso dagli interpreti. È il capitolo in cui Tertulliano riassume per sommi capi il racconto di Aristea, e lo cita esplicitamente[9]: un capitolo che Girolamo (Ep. 34) e Agostino (Civ.Dei 18,42) hanno avuto bene in mente. Non lo riprodurremo per esteso, ma ci limiteremo a considerare la frase finale:

Ita in Graecum stilum exaperta monumenta [qui il manoscritto Pmonumenta reliquit] hodie apud Serapeum Ptolemaei bibliothecae cum ipsis Hebraicis [qui la seconda mano di P aggiunge litteris] exhibentur.

È sintomatico l'infittirsi di varianti in questo passo: esse mirano palesemente a 'normalizzare' il senso. Entrambe figurano in P (= Paris. Lat. 1623); nel secondo caso è la seconda mano di P che ha aggiunto "litteris". Il testo del Fuldense (= F), perduto ma a noi noto dalle superstiti collazioni di Modius, è invece privo di entrambe le aggiunte. Esso dà il senso più soddisfacente, purché ovviamente si interpunga con un punto fermo dopo "monumenta" (è ovvio sottintendere "sunt" dopo "exaperta"):

E così quei monumenti [= quei testi capitali e memorabili] furono tradotti in greco. Ancora oggi si possono ammirare, al Serapeo di Tolomeo, gli esemplari della Bibbia insieme con gli originali ebraici (bibliothecae cum ipsis hebraicis).

Le traduzioni moderne si trovano in difficoltà di fronte alla successione Serapeum Ptolemei bibliothecae, considerato come un unico nesso sintattico: o scrivono, contro ogni notorio dato di fatto, «il Serapeo della biblioteca di Tolomeo»[10], oppure eludono la difficoltà scrivendo «au temple de Sérapis, dans la bibliothèque de Ptolémée» (Waltzing). Su una strada diversa Carl Becker (München 1952): «noch heute sind im Serapeum die Bibliotheken des Ptolemaeus samt den hebraischen Originalen zu sehen». Ma «die Bibliotheken des Ptolemaeus» non ha molto senso, soprattutto in questo contesto, riguardante unicamente la traduzione dell'Antico Testamento; a meno che, appunto, non si dia a "bibliothecae" il senso di "Biblia". Il generico valore di "bibliothecae", come lo prospetta Carl Becker, appare ancor più sconsigliabile a causa del subito successivo cum ipsis Hebraicis («samt den Hebraischen Originalen»): perché mai alle biblioteche di Tolomeo dovrebbero corrispondere degli originali ebraici? Solo nel caso dell'Antico Testamento ciò ha senso. Dunque "bibliothecae" = "Biblia", come nel Prologus della Bibbia di S.Paolo.

Oltre tutto, dire che le biblioteche di Tolomeo hanno sede entrambe apud Serapeum non è comunque possibile. Su questo punto la tradizione era molto bene informata. Epifanio (PG 43,256 B) precisa che la traduzione dei Settanta fu depositata «nella prima Biblioteca, quella costruita nel Bruchion»[11]; invece - soggiungeva - «in un secondo momento fu costruita anche un'altra biblioteca più piccola della prima, che fu anche definita figlia della prima, e qui depositarono le traduzioni di Aquila, di Simmaco, di Teodozione e degli altri interpreti, dopo 250 anni»[12].


[*] Il presente studio costituisce una delle appendici al libro di Luciano Canfora Il viaggio di Aristea, Roma-Bari, Laterza, 1996.

[1] Una prima edizione del Prologus si deve al Margherini, Inscriptiones antiquae Basilicae S.Pauli ad viam Ostiensem, Romae 1654, pp.XXIII-XXIV. Una moderna edizione con commento essenziale fu procurata da Ludwig Traube nel 1896 per la serie dei Poetae Latini Medii Aevi nell'ambito dei Monumenta Germaniae Historica (III: Poetae Latini Aevi Carolini, pp.257-259). L'interpretazione del difficile testo è stata ripresa in considerazione piuttosto di recente da Girolamo Arnaldi: In margine al Prologo della Bibbia di S.Paolo, in Cultura e società nell'Italia medievale, Studi per Paolo Brezzi, I, Roma 1988, pp.27-39.

[2] Cfr. v.58: Ingobertus eram referens et scriba fidelis, etc.

[3] L'osservazione è di Scevola Mariotti, presso Arnaldi, op. cit., p.38.

[4] È ovvio intendere al v.70, con Mariotti, stilis tantis come un riferimento alle varie mani che vergarono l'edizione esaplare.

[5] L'espressione Pandit iubar stellaque veruque è ben spiegata dal Traube con il riferimento alla lettera 104,3 dell'epistolario di Girolamo.

[6] Così, ad esempio, Arnaldi, op. cit., p.35: «La biblioteca cui viene fatto di pensare in riferimento a Tolomeo è la Biblioteca di Alessandria, non la Biblioteca dei Settanta». E invece proprio questo non è esatto.

[7] Cfr. Bischoff, presso Arnaldi, op.cit., p.35.

[8] Del parallelismo tra le due «biblioteche» - la Bibbia e Omero - che traspare ancora nel passo di Isidoro, è un segno anche la tradizione erudita, rappresentata per noi dall'Anonymus Crameri e da Melampode/ Diomede (scolio al cap.5 dell'Ars Grammatica di Dionigi il Trace) secondo cui anche Pisistrato, per ricostruire il corpus omerico, dovette fare ricorso a 72 grammatici.

[9] «Adfirmavit haec vobis etiam Aristaeus».

[10] Al più sarebbe vero il contrario: una biblioteca, detta «la figlia», aveva sede nel Serapeo.

[11] La notizia è esatta, visto che nel Bruchion aveva sede il Palazzo reale dei Tolomei, e dentro il Palazzo reale aveva sede il Museo, contenente anche la «Grande Biblioteca», quella che Epifanio chiama la «prima».

[12] Quest'ultima cifra, metà diakosiostòn kaì pentekostòn kaì penthkostòn étos è certamente sbagliata. Il cosiddetto Opuscolo delle sette traduzioni pone 430 anni tra la traduzione dei Settanta e quella di Aquila, e poi 56 tra quelle di Aquila e di Simmaco. La versione araba dell'opuscolo - che figura in testa al Pentateuco arabo - è, in questo caso, risolutiva, perché attribuisce appunto ad Epifanio la cifra di 450 anni intercorsi tra i Settanta e Aquila: «interpretatio secunda - citiamo dalla traduzione latina del Galland - erat versio Aquilae Sinopensis Pontici, qui tempore Hadriani regis floruit, post interpretationem LXXII annis 450, referente Epiphanio». Dunque è evidente che 250 è corruzione prodottasi nella tradizione greca di Epifanio, non nella tradizione cui attingevano i traduttori arabi del Pentateuco.


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Last technical revision April, 29, 1996.

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