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Arachnion n. 2.1, May 1996


Odisseo mendicante a Troia e a Itaca.
Su [Eur.], Rhesus, 498-507; 710-719 e
Od. 4, 244-258 [*]

di MARCO FANTUZZI (Firenze)


Il Reso ascritto a Euripide è notoriamente l'unica opera del dramma attico, oltre al Ciclope euripideo, di cui è conservata la fonte dall'epica arcaica, il libro decimo dell'Iliade - la fonte o quanto meno una delle fonti [1]. Il Reso è però anche costantemente attento a uno sforzo integrativo che arricchisce la propria innovativa ottica troiano-centrica con personaggi ed episodi ignoti o marginali nella Dolonia iliadica, che aveva una prospettiva greco-centrica: sia con episodi che vengono da altre fonti oppure sono invenzione del poeta (come il compianto finale della Musa per Reso), sia, più spesso, con personaggi, soprattutto alleati dei Troiani, che ovviamente creano attorno a Reso il contesto a lui più idoneo [2]. Del tutto marginali nell'Iliade (a parte Sarpedone), tali alleati sarebbero invece divenuti i veri e propri 'motori' degli eventi della guerra dopo la morte di Ettore, e tra l'altro quasi tutti i loro capi avrebbero presentato forti analogie con Reso - altrettanto caratterizzati da peculiarità favolose e altrettanto segnati da destini di morte: Euripilo nella Piccola Iliade, Memnone e Pentesilea nell'Etiopide.

Esempio ben noto di questa strategia narrativa prolettica che tende nel Reso a 'ciclicizzare' la Dolonia è il lungo contraddittorio iniziale tra l'irruenza di Ettore e il consiglio prudente di Enea (vv. 87-147): il motivo in sé trae sicuramente spunto e motivi dai due dibattiti che oppongono la bellicosità di Ettore e la calma di Polidamante in Il. 11, 60-79, 210-250, e in 13, 723-753 [3] - a Polidamante tuttavia il Reso sostituisce Enea, che certo già anche nell'Iliade godeva della fama di avvedutezza (cfr. 5, 166-238), ma non aveva nessun ruolo nella Dolonia; nel Reso invece Enea fa una vera e propria prova generale del ruolo di capo che in effetti assumerà dopo la morte di Ettore, nei poemi del «ciclo». In questo caso comunque l'autore del Reso si limita a rielaborare materiale iliadico, e la prolessi non è più che implicita: semplicemente al posto dell'iliadico Polidamante subentra il soprattutto «ciclico», ma pur sempre anche iliadico Enea.

Un anacronismo «ciclico» ben più rilevante, ma che pare come sfuggito all'attenzione di molti studiosi, è il riferimento al furto del Palladio e alla spedizione di Odisseo come spia a Troia sotto le spoglie di mendico - sia il primo sia il secondo narrati nella Piccola Iliade, e il primo anche nella Distruzione di Ilio [4]. L'anacronismo è tanto più forte, in quanto ad anticipare questi fatti è Ettore, che notoriamente non sarà più vivo quando essi si svolgeranno.

Di tali episodi Ettore si serve per descrivere a Reso la pericolosità di Odisseo: mentre in realtà Odisseo e Diomede già si muovono nell'ombra verso il loro agguato da spie-incursori, Ettore racconta a Reso come i nemici più seri da affrontare siano Aiace, Diomede (su cui Ettore non si sofferma), e poi (vv. 498-507):

Greek text

«e poi c'è Odisseo, astutissimo e ardito; l'uomo che ha fatto più male alla nostra terra. Venne di notte al tempio di Atena, rubò la statua della dea e la portò alle navi degli Argivi. E un'altra volta entrò in città vestito da mendicante, imprecando molto contro i Greci - ma era stato mandato a spiare; uccise le sentinelle e i custodi e se ne andò» [5].


È fin troppo ovvio che agli orecchi di qualsiasi spettatore antico il riferimento all'incursione spionistica di Odisseo a Troia - tanto più 'en abyme' in quanto palese anacronismo - prefigurava l'agguato che di lì a poco Odisseo e Diomede avrebbero portato a termine su Reso (ed esasperava l'ironia tragica nella sicumera della risposta di Reso a Ettore: vv. 510-517); analogamente il presentimento del Coro ai vv. 710- 719, che si esplica in un riferimento del tutto analogo alla stessa incursione, chiude in composizione ad anello l'eccidio che pure il Coro stesso ancora non sa avvenuto:

Greek text

«una volta [Odisseo] entrò in città: lo sguardo sfuggente, coperto da un mantello da straccione, ma sotto il mantello teneva la spada. Chiedeva l'elemosina e strisciava come un servo accattone, con il capo grinzoso e sordido; e parlava male della casa reale degli Atridi, come fosse davvero nemico dei Greci accampati».

Pare sfuggito agli studiosi moderni del Reso che la funzione prefigurativa di questo racconto ripercorre con grande sottigliezza un'analoga tecnica di prefigurazione messa in atto nel testo omerico, anche lì per Odisseo e anche lì per una sua strage che viene in certo modo 'anticipata' dal ricordo dell'incursione-strage a Troia. Nel quarto dell'Odissea, Elena intrattiene a Sparta l'ospite Telemaco a banchetto col marito, ricordando, tra le tante imprese di Odisseo, per prima proprio l'incursione che Odisseo compì come spia a Troia (vv. 244-258):

Greek text

«Dopo aver fiaccato se stesso con colpi oltraggiosi, e gettato sulle spalle un vile mantello, simile a un servo, penetrò nella città dei nemici, dalle vie larghe. Occultando se stesso, s'era fatto simile a un altro, a Dette, che presso le navi degli Achei non era così. Simile a lui, penetrò nella città dei Troiani: lo ignorarono tutti! Io sola lo riconobbi, pur conciato a quel modo, e gli feci domande: egli le schivò con astuzia. Ma quando lo lavai e lo unsi con olio, lo avvolsi di vesti e pronunziai un giuramento potente, che non avrei rivelato Odisseo tra i Troiani prima che arrivasse alle navi veloci e alle tende, allora mi espose il piano degli Achei per intero. Dopoché uccise molti Troiani col bronzo affilato, tornò tra gli Argivi: riportava molte notizie». [6]

È chiaro che l'autore attribuisce a Elena un racconto inconsciamente parallelo-allusivo agli eventi futuri, ossia all'arrivo di Odisseo a Itaca sotto le spoglie di mendico, al riconoscimento da parte di Euriclea durante l'abluzione dei piedi, alle domande di Penelope e alla elusività di Odisseo, nonché alla strage che questa volta Odisseo farà dei Proci. Tutto ciò anche se, ovviamente, Elena, ignara del futuro, resta ignara anche del valore prolettico del suo racconto, né quel valore prolettico è destinato a essere raccolto da Telemaco. Il gioco è tutto tra l'autore - ossia quel qualsiasi cantore che rifinì il quarto libro nella forma giunta fino a noi, e che ovviamente ben sapeva come l'Odissea andava a finire - e i suoi ascoltatori, che condividevano non meno di lui almeno il controllo sull'esito dell'Odissea e difficilmente potevano non cogliere questa sorta di "artful repetition of theme" anticipatoria: sarà ancora sotto i panni di mendicante che Odisseo arriverà a portare strage, stavolta non fra i Troiani, ma fra i Proci [7].

Molto netta era del resto anche l'interpretazione prolettica che del passo omerico davano gli scoliasti:

Greek text

«per molte ragioni il poeta menziona questa impresa: non solo perché è conveniente per il poema far riferimento a questo punto agli episodi che non sono presentati nell'Iliade, ma anche perché tale racconto è funzionale in rapporto alla strage dei proci, così che non risulta inverosimile che Odisseo arrivi tra i proci in queste vesti. Lo stesso elemento di credibilità è inteso anche a ottenere la fiducia di Telemaco: una volta infatti che ha sentito questo racconto, Telemaco è anche più pronto a credere, nella capanna di Eumeo, che l'uomo travestito da mendicante sia il padre» [8].

È plausibile supporre che questo genere di considerazioni sull'architettura dei poemi omerici circolasse già all'età del Reso, ma è plausibile altrettanto che l'autore del Reso, impegnato anche lui per altri scopi, si è visto, a tà mè dedoména tês Iliádos emphanízein, abbia tesaurizzato per conto proprio la facile lezione di strategia narrativa che il quarto dell'Odissea metteva sotto gli occhi di tutti i lettori. In ogni caso pare assai prevedibile il risultato: per gli spettatori antichi del Reso che colsero la duplice allusione (488-507 e 710-719), ricordare la strage spionistica di Odisseo sotto mentite spoglie di mendicante era oramai quasi un annuncio concreto dell'eccidio di Reso da parte di Odisseo e Diomede, piuttosto che una semplice 'anticipazione' - la fine stessa della storia dell'Odissea fungeva infatti inevitabilmente da garanzia di attuazione/veridicità per una 'anticipazione' così strettamente affine a quella di Elena.

Dal racconto di Elena, il Reso si distacca di poco, è semplicemente più conciso, e soprattutto elimina l'ottica egocentrica con cui Elena, ovviamente, aveva enfatizzato il suo ruolo nell'impresa di Odisseo [9] (un'ottica del tutto impertinente per il Reso). Nella sostanza dei fatti, solo due dettagli differenziano il Reso da Od. 4, 244-258. Teoricamente li si potrebbe supporre come influenze dirette, sul Reso, dal resoconto sull'incursione odissiaca nella Piccola Iliade - anche se questo resoconto, almeno stando allo scarno riassunto in Proclo, sembra davvero essere nulla più che "imitation" del racconto di Elena stessa, come dice Severyns [10]. Vedremo che tale supposizione di un'influenza della Piccola Iliade non è necessaria per il primo dettaglio, e va esclusa nel caso del secondo.

A differenza di Od. IV, il Reso 1) insiste molto, in entrambi i passi, sul fatto che Odisseo si sarebbe presentato a Troia come traditore in rotta con gli Atridi [11], e 2) non sembra contemplare alcuna autodeturpazione come componente del travestimento.

Quanto al primo dettaglio, esso non trova riscontri diretti o espliciti in nessuno dei testi a noi noti; tuttavia sia Elena in Od. 4, 244, sia il riassunto della Piccola Iliade in Proclo (PEG I, A 1, 15 Bernabé = EGF p. 52, 19 Davies) sia [Apollod.] Epit. 5, 13 (che fonde in una sola impresa l'incursione spionistica del solo Odisseo e il furto del Palladio assieme a Diomede), riferiscono che Odisseo si sarebbe autodeturpato procurandosi ferite, mentre Lycophr. 779-785, e gli scolî al v. 780, questi ultimi facendo espresso riferimento alla Piccola Iliade (PEG I, F 7 = EGF F 8), aggiungono che Odisseo si sarebbe 'preparato' all'impresa facendosi ferire da Toante - per diventare irriconoscibile, precisano lo pseudo-Apollodoro e gli scolî a Licofrone (PEG I, F 7, 3), ma, forse, anche con l'intenzione di sembrare un fuggiasco perseguitato, un individuo echtròs òn stratelátais, per dirla con Rh. 719; in questa stessa direzione portano verisimilmente anche le stille di sangue che avrebbero solcato il volto di Odisseo mendico-spia a Troia nella breve rievocazione che ne fa l'Ecuba euripidea di Hec. 240 s. [12] In ogni caso almeno secondo alcune fonti l'autodeturpazione sarebbe stata la strategia di cui l'altra celebre spia-traditore, Sinone (cfr. Triphiod. 219 ss.; Tzetz. Posthom. 687; Eustath. cit. n. 16) [13] si sarebbe servito per rendere credibile che i Greci lo avessero votato alla morte, e quindi accrescere la veracità delle sue rivelazioni fallacemente proditorie [14]; non per caso anche gli antichi pare legassero strettamente le due imprese di fallacia/proditio compiute da Odisseo e da Sinone [15], e curiosamente il trait d'union che troviamo esplicitato in Eustazio è proprio quello dell'autodeturpazione preparatoria [16]. Del resto a mio parere va spiegata come influsso dal parallelo-modello di Sinone anche l'enfasi che il Reso dedica alle imprecazioni di Odisseo contro gli Atridi (504 s., 718 s.) - imprecazioni che ovviamente non potevano esserci nel racconto odissiaco, dove Odisseo non si rivela se non a Elena, e difficilmente ci saranno state anche nella Piccola Iliade, dove pure, almeno per quanto risulta dal telegrafico riassunto in Proclo, Odisseo, penetrato a Troia da katáskopos, è ugualmente riconosciuto solo da Elena, e con lei in segreto trama sulla caduta della città (PEG I, A 1, 16 = EGF p. 52, 20 s.). Sinone invece, almeno stando al resoconto virgiliano, costella la sua rhesis di attacchi-insulti a Odisseo.

Sinone avrà dato all'Odisseo del Reso l'idea delle imprecazioni contro i Greci, ma a differenza sia dell'Odisseo-a-Troia, sia di Sinone, per simulare la condizione di traditore l'Odisseo del Reso non risulta autodeturparsi. Per l'Odisseo del Reso, infatti, si parla semmai di una sorta di abbruttimento-invecchiamento del capo: v. 716: psapharóchroun kára polypinés t'échon. Passi per il «sudiciume» (polypinés) del capo, facile da pensare in un mendico, ma l'«insquallidimento» (psapharóchroun) [17] del capo stesso è un'idea tutt'altro che scontata. A mio parere un diverso ma affine ricordo odissiaco avrà qui interferito sull'ipertesto di Od. IV: l'autore del Reso avrà cioè qui rammentato un altro insquallidimento- invecchiamento del capo di Odisseo che servì a un altro suo travestimento da mendicante, questa volta a Itaca per non essere riconosciuto dai proci - lì intervenne Atena, che «gli tolse dalla testa i biondi capelli, gli avvolse tutte le membra con la pelle d'un vecchio antico» (Od. 13, 431 s.). In pratica il Reso 'corregge' il travestimento di Odisseo mendico a Troia di Od. IV con il travestimento di Odisseo mendico a Itaca di Od. XIII. Chiedersi il perché, significa avventurarsi sullo scivoloso terreno delle intenzioni d'autore; certo è che che tutto l'episodio (vv. 595-674) precedente l'entrata del coro che pronuncerà il v. 716 è dominato da Atena, dea ex machina che ri-orienta l'azione di Odisseo e Diomede e poi amorevolmente sventa il pericolo dell'entrata in scena di Paride. Nel testo del Reso non si dice da nessuna parte che sia stata Atena a imbruttire il prediletto Odisseo per renderlo irriconoscibile, ma è almeno plausibile che proprio il precedente lungo intervento di una Atena premurosa possa aver contribuito a distogliere il pensiero dell'autore del Reso dall'ipertesto di fondo, Od. IV, e gli abbia richiamato la forma di travestimento che Atena operò su Odisseo in Od. XIII

L'enfasi con cui il Reso insiste sul travestimento di Odisseo da mendicante (un mendicante qualunque, sic et simpliciter) è notevole, tenendo conto della brevità dei due accenni all'impresa [18]. Anche nel caso di questa enfasi l'ipertesto che bisognerà presupporre è odissiaco, anzi odissiaco in contrasto-contrapposizione con la Piccola Iliade. L'autore della Piccola Iliade risulta infatti non aver attribuito a Odisseo un camuffamento generico da mendico [19], ed è certo invece che Odisseo vi era presentato come travestito in uno specifico personaggio, il Déktei all'inizio di Od. 4, 248, interpretato come un nome proprio. Ce lo conferma al di là di ogni dubbio Aristarco; stando ad Aristonico, schol. ad v. 248:

Greek text

«il poeta ciclico intende Déktei come un nome proprio: l'individuo con cui Odisseo si scambia l'abito prendendone i cenci: [il resto del verso significa:] "lui che presso le navi non era così miserabile come Odisseo camuffato da uomo da nulla"[20]. Aristarco invece intende déktei come "mendicante", e hòs oudèn toîos éen come "lui, Odisseo, che tale non era, bensì stimatissimo e importantissimo, ma si era fatto simile a un questuante"».

Anche il Déktes della Piccola Iliade con cui Odisseo si sarebbe scambiato le vesti prendendone i rháke sarebbe stato dunque un uomo da poco, un achreîos, forse sarà stato anche un mendicante (un nome parlante?) - a parte achreîos, che a me pare testualmente incerto e comunque è di certo oscuro nella frase dello scolio (vd. n. 20), i "cenci" non lascerebbero dubbi sul fatto che Decte sia persona di vile condizione. Tuttavia non c'è traccia nel Reso del travestimento di Odisseo in un personaggio specifico, mendicante che fosse, ed è certo dunque che l'autore del Reso avrà interpretato il déktes di Od. 4, 248 come nome comune. Un altro elemento porta il Reso ancora più vicino ad Od. IV. Il Reso non configura semplicemente Odisseo come «accattone con addosso abito da mendicante» (v. 503), ma inoltre più precisamente lo definisce travestito come «un servitore mendicante» (v. 715), un binomio 'professionale' del tutto identico a quello in cui si riassume il camuffamento descritto da Elena: l'Odisseo di Elena era "simile a un servitore" (oikêi eoikós: v. 245) e "si faceva simile a un mendicante" (éiske déktei: vv. 247 s.) - un binomio identico e peculiare, peculiare al punto da indurre alcuni studiosi moderni di Omero, cui evidentemente sfuggiva il parallelo del Reso, a optare per Déktes anche in base al fatto che le due qualifiche di servo e mendicante sarebbero incompatibili l'una con l'altra nel passo odissiaco [21].

È plausibile pensare all'autore del Reso come precursore di Aristarco nell'esegesi del déktes di Od. 4, 248, contro l'autorità della Piccola Iliade, né si dovrà escludere che l'interpretazione sostenuta dal Reso possa addirittura avere influenzato la scelta aristarchea.


[*] Questa breve nota, che sarà prossimamente pubblicata su «MD», si è giovata del consiglio degli amici A. Carlini, Mario Labate, F. Maltomini, F. Montanari, Sergio Casali.

[1] Cfr. sul problema B. Fenik, «Iliad X» and the «Rhesus»: the Myth, Bruxelles-Berchem 1964 (che tende a sopravvalutare l'importanza per il Reso di fonti alternative alla Dolonia).

[2] Vd. ad es. i vv. 29, 250-254, 540-545.

[3] Come ha messo ottimamente in luce W. Ritchie, The Authenticity of the Rhesus of Euripides, Cambridge 1964, 66 s.

[4] Sorprende che l'accuratissimo Ritchie, op.cit., a p. 48 s. segnali come anacronismo solo il furto del Palladio, sulla scia dello scolio al v. 502, ma a p. 77 non sottolinei affatto il carattere post-iliadico dell'incursione spionistica descritta ai vv. 498 ss. e 710 ss.

[5] Tr.it. di G. Paduano.

[6] Testo di P. von der Mühll; tr.it. di G.A. Privitera. Qualora, seguendo l'opinione di tutti gli editori ed esegeti più recenti, si voglia proprio intendere Déktes come nome proprio, un'altra interpretazione del v. 248 potrebbe essere (sulla scia di K. Lehrs e L. Friedländer in L.F., Doppelte Recensionen in Iliade und Odyssee, «Philol.» 4, 1849, 581, n. 1): «... a Dette, uno che come tale [ossia con questo nome] non esisteva presso le navi degli Achei». Ma vd. infra n. 20.

[7] Come finemente notava Ø. Andersen, Odysseus and the Wooden Horse, «Symb.Osl.» 52, 1977, p. 9. Cf. già I. Wieniewski, La technique d'annoncer les événements futurs chez Homère, «Eos» 27, 1924, p. 123 s., che eccede nell'ipotizzare: «sans le savoir, peut-être, Homère a créé un lien unissant la Télémachie à la tisis».

[8] In realtà forse lo scoliaste va un po' troppo avanti - più avanti ancora che Wieniewski (n. prec.) - nel postulare la coerenza dei rimandi interni, perché non risulta proprio che il ricordo del racconto di Elena aiuti il Telemaco del sedicesimo libro a credere che sotto gli stracci del mendico straniero si nasconda il padre (vd. anzi vv. 192-200). La stessa ottica razionalistica, ma una valutazione specularmente opposta dei rapporti tra Od. IV e Od. XVI muove la critica di G.E. Duckworth, Foreshadowing and Suspense in the Epics of Homer, Apollonius, and Vergil, Diss. Princeton 1933, p. 25 n. 64, che tende a sottovalutare la portata prolettica del racconto del quarto libro, appunto in base al fatto che il ricordo di esso non incide sull'atteggiamento di Telemaco nel sedicesimo. Sia la prospettiva dello scoliasta, sia quella di Duckworth non tengono conto della peculiarità storica dei due poemi omerici, e ne danno una lettura troppo letteraria. È perfettamente plausibile che il quarto libro abbia fatto una prolessi della notoria fine dell'Odissea, ma alla genesi compositiva dei poemi omerici, almeno inizialmente orale, sarebbe davvero chiedere troppo se si pretendessero regolari rimandi interni regressivi a tutti dettagli dei libri precedenti (e il racconto di Elena è di sicuro un dettaglio minore).

[9] Cfr. S. Douglas Olson, Blood and Iron: Stories and Storytelling in Homer's Odyssey, Leiden 1994, 83 s.

[10] A. Severyns, Le cycle épique dans l'école d'Aristarque, Liége-Paris 1928, 347 s.

[11] Cfr. soprattutto vv. 504 s. e 717-719.

[12] ommáton t'ápo / phónou stalagmoì sèn katéstazon gényn: secondo la grande maggioranza degli interpreti, da Jacobs fino a Collard, le stille di sangue sarebbero qui frutto dell'autodeturpazione di Odisseo che non vuole farsi riconoscere (come in Od. IV). Secondo lo schol. ad loc. si tratta invece di lacrime di angoscia per la mortale missione cui Odisseo va incontro - ma è un'esegesi che, giustamente, ha incontrato ben poco favore (per quanto mi risulta, la sottoscrivevano solo, all'inizio del secolo scorso, Matthiae e Boissonade).

[13] Condivido l'ipotesi di F. Vian, Recherches sur les Posthomerica de Quintus de Smyrne, Paris 1959, 64, per cui «le thème de la mutilation volontaire - absent de Virgile - n'est pas une invention de Tryphiodore: Sinon est un doublet d'Ulysse et son exploit renouvelle celui du fils de Laerte qui avait pénétré dans Troie, déguisé en mendiant et couvert de coups». Anche E. Bethe, Vergilstudien, «Rh.Mus.» 46, 1891, p. 519 s. considera antico il motivo dell'autodeturpazione di Sinone, ma pare ardita la sua ipotesi di individuarne l'inventore in Sofocle.

[14] Sappiamo dal riassunto di Proclo che Sinone fu tra i protagonisti della Distruzione di Troia (PEG A, 10 s. = EGF p. 62 14 s.), e da Aristotele (Poet. 1459b7: PEG T 7 = EGF T 5) che da lui come personaggio della Piccola Iliade sarebbe stata attinta la tragedia Sinone (con ogni probabilità quella di Sofocle nota con questo titolo). Purtroppo la fonte più antica che ci informa sui dettagli è notoriamente Verg. Aen. 2, 57-198, ma gli editori moderni dei framm. di Sofocle, Pearson e Radt, concordano nel supporre che Virgilio riprendesse da vicino la tragedia sofoclea, quanto meno per la rhesis di Sinone.

[15] Cfr. soprattutto Euph. fr. 74 van Gron. (= Serv. ad Verg. Aen. 2, 79) nec immerito Vergilius Sinoni dat fallaciam et proditionis officium, ne multum discedat a fabula, quia secundum Euph. Ulixes hoc fecit).

[16] 1494, 39, ad Od. 4, 244 «colpi deturpanti, con cui ci si sconcia il corpo - all'incirca come quelli, più tardi, di Sinone, colui che presentò cavallo di legno come qualcosa che sarebbe tornato a beneficio dei Troiani».

[17] L'interpretazione di questo composto non è facile, e forse quella dello Stephanus resta la più prudente, perché generica: «squalidum, colore nimirum vel cute». Se lo squallore riguarda la cute si parlerebbe di «capo grinzoso» oppure «alopecico»/«calvo», come intendono un hypomnema, probabilmente antico (cfr. U. von Wilamowitz, De Rhesi scholiis disputatiuncula (1877), ora in Kl.Schr. I, Berlin 1933, 9) di cui conserva memoria, con l'abituale chi (X), lo schol. ad loc.: tò chi hóti phalakrón phesin; analogamente, parrebbe, anche la glossa nel cod. Vat.: tèn (concordato con la variante del Vat., kráta) échousan dierrogyías tríchas; per «capo grinzoso», inclinano ad es. G. Murray (1913), R.E. Braun (1978) e G.Paduano (1991). Se invece si parla del colore, («color cineritius»: Barnes; cfr. Nic. Th. 262) si potrebbe trattare di un ingrigimento della pelle del cranio oppure specificamente dei capelli, ingrigimenti che farebbero entrambi apparire più vecchio il biondo Odisseo. Certo è che la parte nominale del composto rimanda alla cute, non ai capelli, e anzi per i capelli il greco conosce, fin da HHom. XIX, 32, lo specifico psapharóthrix, che tra l'altro nel nostro contesto sarebbe metricamente altrettanto ammissibile quanto psapharóchrous - psapharóchrous che tra l'altro risulta essere un unicismo proprio di questo passo, e parrebbe dunque senz'altro scelto ad arte. Solo se si ammettesse l'equivalenza di psapharóchrous e e psapharóthrix si potrebbe pensare, con D. Ebener (1966) che il travestimento di Odisseo consista nel rendersi la chioma «struppig», ossia «irsuta» o «accrespata», come il pelo delle pecore dell'Inno a Pan cit., o come le alghe (cfr. Hesych. phi 963 S.; vd. anche (?) PSI 892, 34-37). Non vedo proprio l'opportunità di ammettere tale equivalenza.

[18] Cfr. vv. 503 e 712 ss.

[19] È significativo che anche l'iconografia vascolare, solitamente attentissima alla materia «ciclica», sembra non testimoniare mai la figura di Odisseo travestito da mendicante a Troia. Anche il framm. a figure rosse LIMC VI.2, 626, num. 59, che raffigura Odisseo «penché en avant (chevelure en mèches donnant un aspect grisonnant, barbe bouclée, vêtement à manches courtes laissant voir des blessures au bras, bâton à l'épaule); physionomie en éveil, attitude et expression d'un homme aux aguets» (così O. Touchefeu-Meynier LIMC VI.1, 953) sarà da riferirsi con ogni probabilità a Odisseo mendico a Itaca: cfr. F. Brommer, Odysseus als Bettler, «Arch. Anz.» 80, 1965, 115-119 (e anche Id., Odysseus, Darmstadt 1983, 34 s.).

[20] L'achreîos finale crea problemi di esegesi, anche se la traduzione qui sotto, condotta sulla falsariga di quella di Severyns cit., tenta di renderne ragione. Forse si tratta di una glossa intrusiva riferentesi allo stato sociale di Decte, oppure potrebbe doversi integrare ad es. allà prima di achreîos: ossia «che tra i Greci delle navi non era uno del livello di Odisseo, ma era uomo da nulla» (come mi suggeriscono M.J. Luzzatto ed E. Magnelli). Non ci aiuta a risolvere il problema la tradizione del cod. Ambros. E, dove lo scolio al nostro verso segue sic et simpliciter l'interpretazione aristarchea, testimoniandone la fortuna nell'antichità: fortuna per cui cfr. anche Apoll.Soph. 57, 16 ed Hesych. delta 579 L. - una fortuna che a me pare largamente meritata, perché anche a prescindere dall'ardua esegesi dello scolio H, M, Q, T, qualsiasi interpretazione del v. 248 con Déktei resta in ogni caso "clumsy and perplexing" (così S. West in A. Heubeck-S.W.-J.B. Hainsworth, A Commentary on Homer's Odyssey, I, Oxford 1988, 209 ad vv. 246-249). Eppure la lettura aristarchea mi risulta sia accolta, tra gli editori novecenteschi dell'Odissea, solo da Allen, Van Leeuwen e Bérard (ma cfr. anche Ameis-Hentze-Cauer).

[21] Cfr. ad es. W.B. Stanford, The Odyssey of Homer, I, New York 1961, p. 275 ad loc.; H.W. Nordheider, in Lex.fr.Epos 10 Lief. c. 243 s.v.; S. West cit.


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