Go to Arachnion nr. 1 - contents or to Arachnion - home page


La comunicazione letteraria a Roma tra pubblico e privato[*]

di Mario Citroni (Firenze)

Sommario



1. Dimensioni e caratteristiche del pubblico letterario


Tracciare un profilo attendibile del pubblico letterario in Roma antica non è facile, soprattutto in quanto ci mancano alcuni essenziali punti di riferimento quantitativi di carattere generale entro cui inquadrare le informazioni di cui disponiamo. A cominciare dal fatto che non riusciamo a farci un'idea chiara del numero di persone in grado di leggere. W. V. Harris, nel suo recente volume sull'alfabetismo nell'antichità, ha proposto delle stime sulle percentuali della popolazione alfabetizzata nei diversi periodi e nelle diverse aree del mondo antico. Gli va reso merito per il coraggio di essersi "esposto" con cifre precise: ma si tratta, dichiaratamente, di stime ricavate da una serie combinata di inferenze che hanno diversi gradi di probabilità e che sono a loro volta fondate su elementi e su valutazioni che hanno un largo margine di opinabilità. Queste stime, per quanto sorrette da considerazioni attentamente ponderate, si trovano inevitabilmente esposte a obiezioni e a critiche.[1] E ogni stima quantitativa del pubblico letterario, cioè della percentuale della popolazione capace di, e interessata a, leggere testi letterari complessi, apparirebbe, credo, del tutto azzardata. Né siamo in grado di avere un'idea, neanche approssimativa, del numero delle copie che venivano prodotte dei testi letterari più conosciuti o del numero di persone raggiungibili con recitazioni orali di testi letterari.

E di fatto si hanno su questa materia valutazioni molto divergenti. Fino a un passato ancora abbastanza recente, in cui la consapevolezza della rilevanza dell'aspetto comunicativo della letteratura era poco sviluppata, raramente ci si poneva il problema delle modalità di ricezione del testo presso il pubblico letterario romano (nel caso della letteratura greca il discorso è sensibilmente diverso: la consapevolezza del carattere orale, performativo della poesia greca arcaica ha imposto più precocemente una disamina delle condizioni specifiche della comunicazione dei testi, e un'indagine sui tempi e sulle modalità del passaggio dalla comunicazione orale a quella scritta). Per lo più era tacitamente presupposto che le condizioni della comunicazione letteraria, almeno a partire dall'età di Cicerone, non fossero poi molto diverse da quelle moderne. Ed anche nei non numerosi studi che affrontavano tali questioni, ricorrevano facilmente affermazioni incaute relative a una capacità quasi generalizzata di leggere e scrivere, o valutazioni troppo ottimistiche e modernizzanti sul volume e le modalità della circolazione di testi letterari, sulle dimensioni e sull'organizzazione del mercato librario, sull'ampiezza del pubblico letterario.[2] Ma in anni recenti, certo già prima degli studi di Harris, questi temi sono stati affrontati con un più rigoroso atteggiamento critico, sicché oggi è in realtà maturata un'estesa consapevolezza sia dell'esiguità della diffusione dell'alfabetismo al di fuori delle popolazioni urbane, sia dei limiti dell'alfabetizzazione entro le stesse popolazioni urbane, sia, in particolare, della limitatezza del pubblico letterario.[3] Ed anzi in questo atteggiamento di necessaria reazione critica alle approssimative idealizzazioni di un tempo si è probabilmente già andati troppo oltre: non tanto nella stima percentuale della popolazione alfabetizzata, quanto nell'immagine che si è venuta formando del pubblico letterario, che è il punto che qui interessa.

Per quanto riguarda l'estensione dell'alfabetismo, il volume stesso di Harris, che forse rappresenta oggi il grado più spinto di questo atteggiamento critico, registra di fatto, con grande impegno e dottrina, tutta la molteplicità e ricchezza degli usi documentari, tecnici, giuridici, commerciali, amministrativi e privati della scrittura: il quadro della diffusione della cultura scritta che ne risulta è comunque impressionante, anche se l'autore ogni volta sottolinea puntigliosamente la limitatezza, il carattere circoscritto di ogni ambito d'uso della scrittura da lui esaminato. Le sue stime percentuali possono apparire basse, ma sono dovute al fatto che egli le calcola, giustamente, in rapporto a una stima quantitativa dell'intera popolazione, libera e servile: per quanto riguarda l'élite sociale, principale destinataria dei testi letterari, le stime dello stesso Harris non sono poi tanto riduttive. Anzi, egli ritiene che la capacità di leggere fosse presente già alla fine del IV secolo a. C. in tutti i membri maschi dell'ordine senatorio e verso la fine del II secolo in tutti i maschi delle famiglie cittadine più prospere, probabilmente in tutti i cavalieri. Per Harris all'inizio dell'impero chiunque fosse coinvolto nella politica locale, ed anche quasi tutti i legionari (ma non gli ausiliari) doveva saper far uso della scrittura. Ma per quanto riguarda il pubblico delle opere letterarie, il quadro che dà Harris per il mondo romano (più che non quello che egli dà per il mondo greco classico) è tuttavia sicuramente troppo riduttivo. Egli si allinea del resto, in tal modo, su una tendenza oggi sempre più diffusa a concepire il pubblico letterario antico, specialmente il pubblico dei poeti, come ristretta élite di specialisti e di amatori che circonda l'autore.

Una tendenza che, da un lato, si appoggia appunto su questa nuova consapevolezza critica riguardo ai limiti oggettivi della diffusione della cultura e della circolazione dei testi, ma che d'altro lato, e soprattutto, si fonda su una cresciuta consapevolezza (e non raramente su una eccessiva enfatizzazione) della elevata raffinatezza di elaborazione artistica nelle opere dei poeti maggiori, della presenza di sottili allusioni ad altri testi, di eleganti ricerche di equilibri formali e di una quantità di effetti che avrebbe potuto avvertire solo un lettore esperto e coltissimo: il che induce molti ad attribuire ai poeti antichi una concezione rigidamente elitaria della letteratura, come operazione ardua e sottile destinata a un pubblico ristretto di intenditori. Così avviene che tanto in studi di carattere generale sulla diffusione dei testi di letteratura, quanto in studi specifici sui singoli scrittori, sia messa in discussione l'applicabilità per l'antichità classica dei concetti stessi di "pubblicazione" e di "edizione" (parole che vengono sovente scritte tra virgolette, o vengono bandite perché giudicate anacronistiche e pericolosamente modernizzanti). Il che metterebbe in qualche modo in discussione anche l'applicabilità all'antichità classica del concetto stesso di "pubblico", salvo che per i testi comunicati oralmente (e cioè soprattutto per l'oratoria e per i testi teatrali che venivano eseguiti davanti a un pubblico largo e molto differenziato).

Non si tratta, è chiaro, di un problema strettamente quantitativo. Su questo piano, come ho detto, non vi sarebbe speranza di arrivare a risultati attendibili. Per l'interprete dei testi letterari, che cerca di comprendere il dialogo che il testo instaura tra autore e lettore, e di individuare i modi in cui l'interrelazione tra autore e pubblico opera nel determinare la forma del testo, il problema è piuttosto di natura qualitativa: non si tratta tanto di stabilire il numero dei lettori di un autore, quanto di delineare le articolazioni e il carattere del suo pubblico, e l'immagine che del suo pubblico aveva l'autore stesso. In questa direzione i dati disponibili consentono qualche considerazione concreta e qualche valutazione fondata.

In primo luogo dobbiamo chiederci se questo insieme di lettori, comunque molto ristretto numericamente rispetto al complesso della popolazione, è costituito di norma solo da una cerchia sostanzialmente omogenea di persone legate tra loro, direttamente o indirettamente, da amicizia, da senso di appartenenza allo stesso gruppo, da rapporti personali che per varie vie riconducono all'autore, o se è invece un insieme sufficientemente eterogeneo, sufficientemente variegato e, soprattutto, sufficientemente lontano dalla diretta conoscibilità dell'autore, da rappresentare una realtà per lui esterna, sfuggente, imprevedibile, una realtà con la quale egli entra in rapporto soltanto attraverso il suo testo.[4] Si tratta di capire se il destinatario (mi riferisco qui al destinatario contemporaneo) di un testo letterario si riconduce di norma a un committente, a una cerchia di amici dell'autore e dell'eventuale committente, a un più largo ambito di persone che per ragioni di rapporti personali, o di comunanza di ceto, si sentono coinvolte nella destinazione, o se invece esiste anche un destinatario che si pone semplicemente di fronte al testo di un autore contemporaneo come di fronte a una presumibile fonte di piacere, emozione, istruzione, del tutto indipendentemente da un coinvolgimento personale con l'autore e con l'ambito di relazioni nel quale il testo si è prodotto. Questa seconda alternativa, che è quella che corrisponde al concetto moderno di pubblico, presuppone una disponibilità di testi di autori contemporanei al di fuori di una rete puramente personale di rapporti, e sembra quindi comportare l'esistenza di una qualche forma di mercato librario cui il lettore interessato possa ricorrere per procurarsi i testi che via via vengono prodotti, o l'esistenza di una larga diffusione di recitazioni pubbliche non riservate a circoli e gruppi chiusi.

2. Produzione e circolazione dei libri

Le testimonianze sull'esistenza di un mercato librario a Roma sono sporadiche per l'età cesariana e augustea, mentre si fanno sensibilmente più frequenti nella seconda metà del I secolo d. C. Le opere di Cicerone, e soprattutto il suo epistolario con Attico, offrono una larga messe di informazioni sulla produzione e circolazione dei testi al suo tempo: e le indicazioni che si traggono da questa fonte fondamentale sembrerebbero in effetti testimoniare una scarsissima rilevanza del mercato librario e una decisa prevalenza, se non addirittura una esclusiva presenza, di forme private, personali di trasmissione dei testi sia per le opere di autori del passato, sia per le opere di nuova produzione. Da tempo è stata dimostrata l'inconsistenza dell'immagine di un Attico editore "professionale" delle opere di Cicerone o di altri autori[5] ed è stata ricondotta giustamente la sua attività in tal senso solo a quella di un appoggio e di un aiuto, peraltro fondamentale, dato a Cicerone nel compito della riproduzione domestica delle copie delle sue opere (compito che solitamente assolveva l'autore stesso con propri scribi e che anche Cicerone curava in parte con propri scribi personali), e a quella di un appoggio e di un aiuto nell'opera di diffusione privata dei suoi scritti, attraverso la vasta rete di rapporti personali che Attico aveva instaurato per altre ragioni a Roma e lontano da Roma. Ma appunto dalle lettere di Cicerone risulta che questa riproduzione domestica, e questa diffusione privata, potevano propagarsi anche molto considerevolmente e coincidevano in sostanza con la "pubblicazione" delle sue opere. Cicerone, come per lo più gli autori antichi, inviava agli amici (e spessissimo proprio allo stesso Attico) copie non definitive dei propri scritti per avere suggerimenti e correzioni. Ad un certo punto egli stabiliva che una certa forma del testo era da considerarsi definitiva e che la sua trascrizione poteva quindi essere fatta, e propagata ad altri, anche senza la sua autorizzazione: questo e non altro era per lui la decisione di "pubblicare" un'opera. Non la consegna dell'opera a un "editore" che ne riproducesse un largo numero di copie, ma semplicemente l'autorizzazione a che quell'opera, in una certa forma considerata definitiva, venisse letta e trascritta da chiunque, essendone interessato, riusciva a procurarsela. Il che sarebbe poi avvenuto sempre, o quasi sempre, per vie private (doni, prestiti ecc.), solo raramente e in modo non rilevante attraverso l'impersonalità di un mercato librario. Si è ritenuto da parte di vari studiosi che questo modello di produzione e circolazione, chiaramente testimoniato in Cicerone, debba essere esteso alla generalità della produzione letteraria del periodo ciceroniano, e, a fortiori, anche alle età precedenti, nelle quali naturalmente l'ambito di circolazione deve essere considerato assai più ridotto. Ed anzi, poiché il modello che si riconosce valido per Cicerone coincide sostanzialmente col modello che si ricava dalle testimonianze di prosatori greci (soprattutto dalla trattatistica scientifica e filosofica) e con le modalità di diffusione della letteratura patristica,[6] esso viene spesso considerato come il modello principale della pubblicazione e diffusione dei testi nell'antichità: i testi sarebbero circolati essenzialmente per via privata, in primo luogo attraverso trascrizioni eseguite dagli scribi personali dell'autore e diffuse nella sua cerchia di conoscenze, e quindi attraverso una propagazione delle trascrizioni, curate da amici dell'autore e da quanti erano interessati a procurarsi, sempre per via di contatti personali privati, copie di quell'opera da trascrivere per proprio uso personale. Il mercato librario avrebbe costituito solo una integrazione molto secondaria a questo sistema di diffusione per via essenzialmente privata, un'integrazione divenuta significativa, ma comunque non predominante, solo nel corso del I secolo d.C. In base a questo tipo di considerazioni è stato recentemente affermato che solo al tempo di Plinio il Giovane, e anche allora solo parzialmente, la letteratura sarebbe uscita dai confini della relazione di amicizia.[7]

E in realtà l'élite colta, destinataria prevalente o esclusiva dei testi letterari, potrebbe essere considerata, con una certa approssimazione, come un unico vasto tessuto costituito da una trama di rapporti personali di amicizia e di clientela, una trama che attraverso passaggi variamente mediati lega non solo le diverse componenti dell'élite della capitale tra loro, ma lega ad esse le diverse élites locali, italiche e provinciali, e a queste élites lega, a sua volta, gli scrittori e quegli intellettuali "professionali" di rango sociale inferiore, per lo più di condizione libertina o servile e di origine provinciale, "straniera", che con la loro attività di insegnanti, di critici, di consiglieri culturali, e anche di produttori di testi letterari, sostengono e in parte elaborano l'attività culturale "per conto" dell'élite colta o comunque in stretto rapporto con essa. Il modello di diffusione "privata" dei testi che abbiamo sopra descritto potrebbe essere dunque in realtà considerato conforme a un carattere strutturale fondamentale di quell'aggregato sociale che costituisce l'ambito di destinazione (ed anche di produzione) dei testi stessi. Ed è quindi probabile che, per questa via di diffusione "privata", testi di particolare interesse ed attualità, specialmente testi di attualità politica (come ad esempio le versioni scritte di certe orazioni di Cicerone), si diffondessero in realtà assai largamente, ben al di là dell'ambito di quei destinatari che avevano un diretto rapporto personale di amicitia con l'autore e con la sua cerchia: anche per questa via si poteva insomma certamente determinare un distanziamento tra autore e pubblico che rendesse quest'ultimo una realtà in certa misura "anonima" agli occhi dell'autore, e si poteva determinare un accostamento del lettore al testo come a un prodotto "esterno". Ma il tramite personale, l'accesso al testo per via di amicizia, doveva pur sempre comportare, da parte del lettore che fosse riuscito a procurarsi la possibilità di tale accesso, una sensazione di compartecipazione a una rete di relazioni private di cui il testo si faceva in qualche modo espressione e testimonianza.

3. Recitazioni e testo scritto

Una maggiore capacità di diffusione dei testi a un pubblico "esterno" viene a volte attribuita alla comunicazione orale: una forma di comunicazione un tempo trascurata, ma la cui importanza anche per i testi non teatrali o oratorii negli studi recenti è ormai ampiamente riconosciuta, ed è anzi a volte sopravvalutata. Dall'età augustea in poi si fanno sempre più frequenti le testimonianze relative a recitazioni di opere di poeti contemporanei davanti a un pubblico interessato e partecipe (o anche annoiato e infastidito); ma anche per periodi precedenti abbiamo notizia di letture e spiegazioni pubbliche di testi eseguite da specialisti, da grammatici, davanti a un pubblico non ristretto.[8] A queste esecuzioni di poesia recitata il pubblico andava naturalmente con uno spirito diverso da quello con cui un lettore affronta un testo scritto: le sale di recitazione sono luoghi di incontro, occasioni di rapporto sociale, di esibizione di interesse culturale. Il confronto con il testo può essere un movente secondario per molti di coloro che assistono a una recitazione. Ma non c'è dubbio che per tanti spettatori si trattava di occasioni di effettivo approccio alla letteratura. Non è però ben chiaro quanto larga fosse la capacità di diffusione di un testo contemporaneo attraverso questa forma di comunicazione e fino a che punto si trattasse di un approccio al testo veramente "pubblico". Di norma si trattava di recitazioni tenute dal poeta stesso, che non avrà esteso questa sua attività di esecutore al di fuori dei circoli colti della capitale. Se abbiamo qualche riferimento a recitazioni tenute in teatri, presumibilmente davanti a un pubblico del tutto aperto e vario,[9] se Orazio disdegna la recitazione pubblica come una esibizione davanti a un uditorio non qualificato (sat. I 4, 23 e 73 ss.; epist. I 19, 37 ss) e che dunque sembra configurarsi come un uditorio largo e vario, per lo più sentiamo invece parlare di recitazioni davanti a un pubblico scelto di invitati.[10] E dunque proprio la recitazione di un poeta contemporaneo era spesso l'occasione in cui soprattutto veniva sottolineato il carattere privato della comunicazione del testo letterario ai suoi destinatari. Tutta l'aneddotica di Marziale e tutte le recriminazioni di Giovenale sui tormenti inflitti agli ascoltatori nelle recitazioni, e soprattutto la testimonianza non sospetta di Plinio, che si vede costretto ad esternare una indignazione un po' patetica per l'atteggiamento disattento, infastidito o impertinente di certi uditorii,[11] ci mostrano bene che alle recitazioni una buona parte del pubblico si recava solo per obbligo sociale, solo in ragione appunto dei rapporti personali che lo legavano, direttamente o indirettamente, all'autore, e che gli imponevano la partecipazione alla recitazione come un dovere di cortesia.

Non c'è dubbio, ad ogni modo, che per mezzo delle recitazioni molte persone prendevano conoscenza di testi che altrimenti non avrebbero mai letto, e non c'è dubbio, altresì, che gli autori se ne rendevano conto e scrivevano le loro opere anche in funzione dell'effetto che avrebbero prodotto davanti agli uditorii delle sale di recitazione. Va anche considerato che nell'antichità la stessa lettura personale dei testi letterari era fatta solitamente ad alta voce e che era diffusa la pratica di farsi leggere i libri da uno schiavo specializzato nella funzione di lettore (anaghnóstes), magari in presenza di qualche familiare o amico intimo, o durante un banchetto:[12] perciò la distinzione tra lettura personale e recitazione non è del tutto netta, e l'attenzione dell'autore per gli effetti fonici, per gli effetti "recitati" del testo era comunque rilevante. Ma, anche se il testo di fatto veniva per lo più percepito con l'udito, esso realizzava pienamente la comunicazione col pubblico, era sentito come opera "pubblicata", in quanto si materializzava in un libro. Un libro che gli interessati avrebbero potuto leggere personalmente in privato (solitamente ad alta voce, altre volte in silenzio) o farsi leggere da altri ad alta voce in privato, da soli o con pochi amici, o sentir recitare dall'autore (o molto più raramente da esecutori professionali) in ambiente pubblico. Le "recitazioni" sono di norma recitazioni di un libro — già compiuto o in corso di ultimazione — non di un testo che prescinde dalla forma libraria. Per lo più sono intese come saggi provvisori o come presentazioni in anteprima di testi che troveranno la loro forma definitiva e la loro piena realizzazione nel libro. I casi, molto più rari, in cui sono testimoniate recitazioni "pubbliche" di testi che già circolano in forma libraria dimostrano che la recitazione poteva offrire una forma di accesso al testo più agevole, o più gradevole, o più spettacolare, comunque diversamente attraente rispetto a quella fornita parallelamente dal testo scritto, ma non ci consentono certo di attribuire alla generalità dei testi scritti delle opere poetiche latine un ruolo meramente strumentale rispetto all'esecuzione, paragonabile alla partitura di un brano musicale.[13] Solo particolari tipi di testi poetici occasionali, commissionati per essere recitati in determinate cerimonie pubbliche o private, o composti per partecipare ad agoni poetici, avevano come fine primario l'esecuzione orale: mi riferisco a carmi come quelli raccolti da Stazio nelle Silvae, che costituiscono però un caso alquanto anomalo nel panorama della poesia latina classica.[14] Carmi occasionali di poeti come Catullo e Orazio, anche se talvolta potevano essere stati recitati in anteprima al dedicatario o a una cerchia di amici in rapporto con una occasione particolare, erano evidentemente destinati fin dall'inizio a trovare il loro posto in una raccolta in forma libraria e ad assicurare come scritti «più duraturi del bronzo» la celebrazione dell'occasione da cui erano nati (e credo che ciò valga in certa misura per lo stesso Stazio delle Silvae).

La recitazione è una importante forma di trasmissione dei testi, ma non rappresenta, a Roma, la forma in cui si realizza compiutamente e privilegiatamente la comunicazione letteraria (se non nei testi destinati al teatro e nell'oratoria). Né è una forma che consenta una diffusione particolarmente larga, legata come è, di norma, alla presenza fisica dell'autore davanti a un uditorio di invitati, anche se si può ammettere che probabilmente a Roma e in qualche altra città di maggior vivacità culturale vi possono essere state letture di opere seguite da un pubblico qualitativamente più vario di quello dei lettori abituali di testi scritti. Del resto da questa forma di diffusione resterebbero comunque escluse le grandi opere in prosa, e non si hanno testimonianze chiare che consentano di affermare che venissero letti integralmente in pubblico vasti poemi.[15] Né si può certo dire che la letteratura latina, fino al II secolo d. C., presenti un progressivo venir meno della comunicazione orale dei testi letterari in rapporto con la crescita del ruolo della comunicazione scritta: anzi, le testimonianze indicano chiaramente una crescita continua di entrambe le forme di diffusione dei testi in rapporto con la crescita dell'interesse del pubblico per la letteratura. Il maggior numero di testimonianze della presenza delle recitazioni di testi letterari nella vita culturale di Roma si ha tra I e II secolo d. C., proprio quando più solide diventano le attestazioni di un ruolo significativo del mercato librario nell'assicurare la disponibilità dei testi.

4. Il pubblico "anonimo" e il mercato librario

In vari studi recenti l'esistenza di un pubblico del tutto esterno al mondo delle relazioni private dell'autore viene considerata acquisita soltanto verso la fine del I secolo d. C., quando molte fonti ci danno testimonianza dell'esistenza di un mercato librario sufficientemente sviluppato.[16] Io credo in realtà che si possa far risalire l'inizio di questo rapporto impersonale tra autore e lettore a un'età considerevolmente anteriore. Il modello di diffusione per via privata, come si è detto, è stato ricostruito soprattutto sulla base di testimonianze relative alla diffusione delle opere di Cicerone, di trattati scientifici e filosofici greci, di testi patristici. Si tratta di testi che (salvo le orazioni di Cicerone di più bruciante attualità politica) non erano comunque destinati ad un pubblico molto differenziato, bensì a un ambito limitato e relativamente omogeneo di competenti: non è detto che il modello di diffusione valido per questo tipo di opere debba essere esteso a tutte le diverse forme di produzione letteraria. E d'altra parte, se le testimonianze sul mercato librario si fanno più frequenti nel I secolo d. C., ciò è dovuto essenzialmente al fatto che conserviamo l'opera di Marziale, di un autore, cioè, che si rivolge a un tipo di pubblico ben diverso da quello per cui sono scritti i trattati di Cicerone, o di Galeno, o dei padri della Chiesa. Il fatto che anteriormente a Marziale si senta parlare poco di librerie negli autori latini, non significa di per sé che esse avessero un ruolo trascurabile nella diffusione del libro. Solo nei generi poetici "minori" sarebbe stato ammissibile che un poeta parlasse dei modi in cui venivano messi in circolazione i libri suoi o di altri poeti: e in effetti nella poesia "minore" latina si parla della presenza di librerie a Roma fin da Catullo, e poi nelle satire e epistole di Orazio e, con più dettagli, in Marziale che è, in generale, poeta particolarmente propenso a far entrare i dettagli della vita quotidiana nella sua poesia. Molti aspetti concreti della vita quotidiana e della sua organizzazione entrano nella letteratura latina solo con l'opera di Marziale senza che per questo si debba credere che prima di Marziale non siano esistiti. Dei modi in cui vengono messi in circolazione i libri sarebbe naturalmente stato ammissibile parlare in opere in prosa: ma queste, come si è detto, spesso avevano un carattere specialistico che le rendeva comunque inadatte al mercato librario. Del resto non è del tutto vero che il mercato librario sia assente in Cicerone: egli non sembra volerlo utilizzare nella diffusione delle proprie opere e non vi attinge volentieri per procurarsi libri per la sua biblioteca: ma ciò non perché le librerie non esistano, bensì perché egli non vi trova i testi di cui ha bisogno e in particolare perché offrono esemplari scadenti, non corrispondenti alle sue esigenze.[17] Cicerone, grazie alle sue relazioni e soprattutto a quelle di Attico, è in grado di procurarsi, attraverso canali privati, esemplari di qualità superiore a quelli che si possono trovare in commercio, così come, grazie ai propri scribi e soprattutto grazie agli scribi di Attico, è in grado di produrre delle proprie opere esemplari ben più accurati di quanto non potrebbe fare l'artigianato librario corrente. Ma un artigianato librario esiste al tempo di Cicerone, e se Cicerone motiva le ragioni per cui è indotto a non servirsene, o a servirsene solo in mancanza di meglio, è perché, evidentemente, poteva sembrare per altri versi naturale ai suoi interlocutori che egli se ne servisse.

La testimonianza offerta dal carme 14 di Catullo sull'esistenza di un mercato librario al suo tempo non è dunque isolata: ed è, per di più, una testimonianza di particolare significatività, una testimonianza che va ben al di là della semplice notizia dell'esistenza di librerie. Catullo ci propone questa situazione (che, anche se fittizia, doveva apparire credibile): in occasione dei Saturnali egli ha ricevuto in dono dall'amico poeta Licinio Calvo un libro che raccoglie poesie di quegli autori contemporanei che Catullo, e certo lo stesso Calvo, considera i peggiori. Catullo suppone che Calvo abbia voluto rifilargli un regalo che egli aveva ricevuto a sua volta da un maestrucolo di scuola che pensava di ripagarlo così dei suoi servigi di avvocato. Per intanto egli si limiterà a restituire al mittente il dono pestilenziale con l'accompagnamento di questo carme di sfogo: ma appena farà giorno, e i negozi riapriranno, correrà ai banchi dei librai, raccoglierà tutti i poeti peggiori del momento, i Cesii, gli Aquini, Suffeno... e ricambierà l'amico con un supplizio altrettanto esiziale. Da questo carme si deduce dunque che al tempo di Catullo era già un fatto del tutto naturale, un uso comune, inviare un libro come oggetto di dono in occasione dei Saturnali, e che per procurarsi libri destinati a questo scopo era del tutto normale ricorrere al mercato librario. Certo, il carme di Catullo fa riferimento a doni di libri tra intellettuali, tra specialisti della cultura (un maestro di scuola, un avvocato- poeta, un poeta) e dunque non dimostra, a rigore, l'esistenza di una figura di lettore comune, ma dimostra comunque che il libro di autore contemporaneo, la "novità editoriale" circolava come oggetto di pregio nei rapporti sociali correnti, almeno entro certe categorie di persone, e che questa circolazione si fondava normalmente sul mercato librario; il quale poi, a quanto pare, non era troppo misero, ma offriva anzi parecchie opportunità ai suoi clienti se Catullo può contare di procurarsi alla svelta, con un giro tra le librerie da fare al mattino, tutto il peggio della produzione poetica contemporanea per ricambiare il dispetto dell'amico: vi si trovavano dunque molte opere già pronte da comprare, non era necessario farle confezionare su ordinazione dal libraio.[18]

In Orazio la contrapposizione tra la sua riservatezza di poeta d'élite e il goffo esibizionismo dei tanti poetucoli e poetastri dilettanti si esprime a volte come contrapposizione tra il recitare i propri versi solo in una cerchia intima e il recitarli in pubblico, con riferimento dunque alla comunicazione orale (vd. i passi citati sopra); ma altre volte la contrapposizione è senz'altro tra il testo che resta nell'intimità della casa del poeta e il testo che si mette in mostra a tutti nei negozi dei librai.[19] Già per Orazio, come per noi, il concetto di "pubblicare" può avere il suo equivalente nel concetto di "andare in libreria", e, come per noi, significa essere esposto a un pubblico ignoto, estraneo, forse ostile, a un pubblico che probabilmente non è degno del messaggio di élite di cui il libro è portatore, un pubblico che il poeta in un certo senso preferirebbe non affrontare, ma che in realtà sa di dover affrontare e al cui favore non riesce ad essere indifferente. Questo è il senso dell'epistola I 20 in cui Orazio cerca di trattenere il libro che, avvezzo a mostrarsi a pochi finché rimane nella casa privata del suo poeta riservato e intimo, ad un certo punto diventa impaziente di andare a "prostituirsi", esponendosi nelle botteghe dei librai e lasciandosi insozzare dalle mani del volgo. Orazio fa mostra di voler trattenere il libro, ma in realtà lo pubblica, lo invia dal libraio, e gli affida un messaggio che varrà per tutti i lettori, anche quelli lontani nel tempo e nello spazio.[20] Orazio diffida di questo pubblico di estranei, ma sa bene che questo pubblico esiste, ed è amareggiato dalle incomprensioni che gli riserva, così come invece si allieta per le dimostrazioni di affetto che ne riceve. Egli si compiace non solo dell'estensione spaziale e temporale della fama che si ripromette dalle sue opere (carm. II 2O e III 30), ma si compiace anche di vedersi mostrato a dito dai passanti quando cammina per la strada (carm. IV 3, 22) e viceversa si spazientisce quando non si vede apprezzato come ritiene di meritare da parte di lettori privi di gusto (epist. I 19).

Dunque un pubblico di lettori estraneo alle relazioni private del poeta, un pubblico che va in libreria per procurarsi i testi che desidera leggere, esiste sicuramente al tempo di Orazio, e a quanto pare già al tempo di Catullo e Cicerone, giacché anche allora le librerie avevano i loro clienti, che forse non erano tanto i membri dell'élite più alta, i quali, come vediamo dalle testimonianze ciceroniane, si procuravano più spesso i libri migliori attraverso canali privati, quanto un pubblico un poco più modesto di amatori, che vi cercava libri alla moda, libri di intrattenimento, libri che era benfÆleggere per fare figura in società, libri da regalare nelle occasioni sociali che potevano richiederlo, e certo anche esemplari di opere "classiche".

5. Le articolazioni del pubblico letterario

Un discorso sulle caratteristiche del pubblico e sulle modalità e l'atteggiamento con cui il pubblico accede ai testi, deve in effetti distinguere tra diversi tipi di testi che hanno diversi spazi di destinazione. I grandi trattati di Varrone, destinati alla consultazione specialistica e costosi per la vasta mole, non potevano certo circolare sul mercato librario, e si saranno diffusi assai poco anche nella cerchia delle relazioni private dell'autore: anche a Cicerone mancava la disponibilità personale di testi di Varrone;[21] probabilmente di molti di essi vi sarà stata in giro a mala pena qualche copia (da Gellio III 10, 17 sembra di capire che di alcune opere di Varrone esistevano solo gli esemplari personali dell'autore stesso).[22] Di opere della mole di quella di Livio non è probabile che esemplari completi potessero essere disponibili in libreria: chi ne avesse desiderata una copia doveva probabilmente farla fare su ordinazione a un proprio copista o a un artigiano che lavorava in proprio, procurandosi nel circuito privato o in una biblioteca pubblica l'esemplare da cui procedere alla trascrizione.[23] Opere in prosa di misura non troppo vasta e di un interesse non rigidamente specialistico come i trattati ciceroniani si saranno diffuse abbastanza vivacemente nei canali privati sopra descritti, e solo raramente saranno arrivate in libreria; ma Cicerone stesso, a proposito delle opere di divulgazione filosofica di modesto livello e di facile accessibilità pubblicate dall'epicureo Amafinio e da altri epicurei romani dopo di lui, parla di un successo di pubblico molto largo, un successo che, nei termini in cui è descritto da Cicerone, sembrerebbe difficilmente realizzabile con un sistema di diffusione di tipo privato.[24] D'altra parte, secondo Cicerone, il fatto stesso che tali opere abbiano trovato favore presso gli indocti è la miglior prova che si tratta di scritti carenti di subtilitas: per opere di filosofia veramente serie non c'era dunque da aspettarsi diffusione se non entro una élite qualificata. I testi di orazioni ciceroniane di attualità probabilmente in libreria ci saranno arrivati più volte: la loro diffusione tra un pubblico largo è data per scontata dal retore Silio Pompeo (di età augustea), il quale, in una suasoria sul tema se Cicerone avrebbe dovuto acconsentire a bruciare le Filippiche in cambio della promessa di incolumità da parte di Antonio, osservò che Antonio non sarebbe stato certo tanto sciocco da attribuire qualche importanza al rogo dei libri di un autore «i cui scritti erano diffusi per tutto il mondo».[25] Cicerone dice che anche persone della condizione più bassa (infima fortuna), anche degli artigiani (opifices), amano la storia: ciò non significa necessariamente che leggessero interi trattati storici, ma è probabile che una letteratura storico-biografica più semplice, di tipo divulgativo, arrivasse a un pubblico non troppo ristretto.[26] Letteratura non specialistica, opere di poeti di attualità, manuali destinati ad uso pratico, testi di intrattenimento, dovevano essere abitualmente disponibili nelle botteghe dei librai. Ovidio, nel II libro dei Tristia (vv. 471 sgg.), fa un lungo elenco di opuscoli e trattatelli, probabilmente in gran parte poetici, su giochi e altre attività del tempo libero, che circolavano abbondantemente a Roma nel periodo dei Saturnali: si tratta di letteratura che guida i Romani al buon uso del tempo libero nei Saturnali e che è essa stessa un intrattenimento del tempo libero.[27] Ovidio in realtà non dice esplicitamente che queste opere sono disponibili in libreria, ma non sembra ragionevole pensare che esse circolassero solo per via privata, tanto più che non si trattava certo di testi prodotti e destinati privilegiatamente nell'ambito dei membri dell'élite aristocratica, che disponevano di scribi privati e di una rete di relazioni che poteva assicurare efficace diffusione privata; erano invece destinati a una fascia di pubblico più basso, che doveva presumibilmente ricorrere all'artigianato e al mercato librario per procurarsi i suoi testi di lettura. Certo al mercato librario era affidata la distribuzione delle due opere poetiche di "letteratura per i Saturnali" che conserviamo: gli Xenia e gli Apophoreta di Marziale (degli Xenia sappiamo anche, da Marziale XIII 3, 4, il nome del rivenditore: lo stesso Trifone che curò la pubblicazione e la vendita dell'Institutio oratoria di Quintilano!). Una parte di questo pubblico di fascia più bassa era probabilmente in grado di leggere anche la poesia alla moda, e si comprava in libreria, ai tempi di Catullo, i Cesii, gli Aquini e i Suffeni: poeti contemporanei che i lettori di fascia più alta si saranno procurati in parte essi stessi in libreria e in parte invece con la circolazione privata (attraverso omaggi e prestiti da parte degli autori stessi e dei loro amici). In età augustea certamente un numero più alto di clienti si rivolgeva alle librerie per accedere a testi contemporanei di poesia, specialmente degli autori più rinomati, a testi di storiografia e di attualità politica: testi che circolavano anche, e forse principalmente, per i canali privati, entro una cerchia non ristretta, ma comunque fatta di rapporti privati, dovevano in molti casi essere reperibili anche sul mercato librario per un pubblico non partecipe, o non necessariamente partecipe, di quelle relazioni private.

Se il pubblico letterario rappresenta una minoranza ristretta della popolazione, non per questo esso è una minoranza uniforme: ha al suo interno varie componenti, la cui rispettiva rilevanza varia molto a seconda dei diversi tipi di testi: l'élite colta della capitale che vuole essere pienamente partecipe della produzione culturale contemporanea; le élites locali italiche, che solidi indizi ci dicono considerevolmente partecipi della vita culturale di Roma fin dalla fine del II secolo a. C.;[28] le élites provinciali, che almeno dal I sec. a. C. cercano di assimilarsi a quelle della capitale; tutti coloro che a queste élites con vario successo cercano di accostarsi e cercano quindi di condividerne gli interessi e gli stili di vita; tutti coloro che avendo ricevuto una formazione scolastica di livello superiore a quello elementare, e avendo dunque imparato a scuola a leggere e ad analizzare i testi letterari, cercano di non disperdere questa capacità che è ragione di prestigio sociale e si accostano almeno a testi semplici di letteratura di intrattenimento. Si tratta di un insieme variegato: dal senatore, al magistrato provinciale e a tutto il mondo dei notabili locali, al tecnico dell'amministrazione, al militare di un certo rango, all'artigiano che usa lo scritto per attività inerenti al suo mestiere e che può accedere a testi letterari più semplici.[29]

La varietà del pubblico aumenta certamente nel I secolo d. C., ma io credo che essa fosse già assai ampia in età augustea, e che dunque non fosse trascurabile neanche in età ciceroniana. La letteratura per i Saturnali di cui ci parla Ovidio è letteratura orientata verso fasce medie o medio-basse del pubblico (il che ovviamente non esclude che fosse letta anche dalle fasce alte), che dunque esistono già al suo tempo. E tutta la vile letteratura prodotta da una folla di dilettanti di cui ci parla Orazio presuppone, anche concedendo molto alla deformazione caricaturale oraziana, una pratica vivace e diffusa, non propriamente elitaria, dello scriver poesia: e dunque una tanto più vivace e diffusa pratica del legger poesia: anche se questi poetastri dilettanti trovavano probabilmente pochi lettori, erano però almeno, essi stessi, dei lettori di poesia. Il disdegno del poeta d'élite per il pubblico costituito da gente comune, impreparata, si esprime talvolta con il disprezzo per la prospettiva di andare a finire in mano agli scolari come testo di lettura (Hor. sat. I 10, 74 s.; epist. I 20, 17 s.; Pers. 1, 29 s.; Mart. VIII 3, 15 s.): attraverso la scuola, ai suoi diversi livelli, un pubblico anonimo e non troppo ristretto veniva in contatto con la letteratura, anche con la letteratura contemporanea (sulla utilizzazione di testi letterari contemporanei nell'insegnamento scolastico, oltre ai passi citati qui sopra, ed oltre ai casi di Livio Andronico ed Ennio, che insegnavano interpretando i poemi latini da essi stessi composti, cfr. Suet. gramm. 16). Per procurarsi i testi di letteratura oggetto dei corsi, o comunque previsti dal programma formativo, al livello della scuola del grammaticus e della scuola del rhetor, testi che erano assai numerosi a quanto si può dedurre dalle testimonianze di Quintiliano, gli alunni dovevano evidentemente ricorrere al mercato librario, che doveva mettere a disposizione di un pubblico anonimo, certo ristretto, ma non rigidamente d'élite, una quantità considerevole di testi "classici" del passato, ma anche di testi recenti o contemporanei. Un commercio librario legato all'attività delle scuole di retorica è attestato per la trattatistica: nel proemio della Rhetorica ad Herennium, in un tempo in cui la frequentazione delle scuole era certo molto ristretta, si parla già di trattati scritti per guadagnare; Quintiliano, nell'epistola proemiale al libraio- editore Trifone, parla esplicitamente dell'interesse economico del libraio a far fronte alla domanda del pubblico per il suo trattato. Celio in una lettera a Cicerone (fam. VIII 3, 3) chiede che questi gli dedichi un'opera: possibilmente un trattato, perché le opere didascaliche hanno più lettori.

L'alfabetizzazione e la diffusione della cultura letteraria erano certamente molto inferiori nelle donne: eppure le testimonianze sulle donne come lettrici di letteratura non sono poche:[30] mi limiterò a citare un passo di Ovidio che non mi pare venga utilizzato negli studi sulla questione. Nel II libro dei Tristia, di fronte all'obiezione della pericolosità per la moralità delle matrone di un'opera come l'Ars amatoria, che se pur non rivolta espressamente ad esse, da esse poteva essere letta e presa a modello, Ovidio risponde che da tutti i classici della letteratura si potrebbero ricavare modelli negativi di comportamento, e dunque, applicando questo criterio, alle donne non si dovrebbe far leggere nulla. Nil igitur matrona legat (v. 255): è una frase lanciata come una provocazione, come un adúnaton: le matrone leggono i classici, sarebbe assurdo, improponibile, impedire alle matrone di leggere! La letteratura è un'istituzione di cui non si può fare a meno. Il noto programma di letture di poesia greca e latina proposto nel III libro dell'Ars (vv. 329 ss.) alla donna che voglia aver successo nella vita galante non va preso troppo sul serio, ma presuppone comunque che la donna che si mette in mostra in società, anche se non è di condizione elevata (qui non si tratta di matrone!) ha una certa disponibilità e capacità di accostarsi alla letteratura classica. Nella stessa direzione ars II 281 s.: Ovidio, con giocosa malizia, dice che le ragazze colte (doctae) sono pochissime, ma che tutte vogliono far mostra di esserlo. E anche il far mostra di una cultura che non si ha richiede pur la lettura (o l'ascolto) di qualche testo letterario: e infatti Ovidio consiglia di mandare in dono a tutte versi scritti in loro onore, che da tutte saranno molto apprezzati.

La più larga presenza di fasce "medie" di pubblico letterario nel I sec. d. C. è testimoniata soprattutto da Marziale, ma anche in questo caso si dovrà tener conto del fatto che queste fasce di pubblico potevano esistere già prima che si trovasse un autore come Marziale disposto a parlare apertamente della loro esistenza nelle proprie opere e disposto a rivolgersi apertamente ad esse. Dall'opera di Marziale si ricava un altro elemento importante: le diverse componenti del pubblico, distinte per la loro diversa competenza, possono anche ritrovarsi unite come pubblico di uno stesso testo (cui si accosteranno naturalmente con capacità e interessi diversi) e possono dunque a buon diritto essere considerate come componenti distinte di un pubblico in ampia misura unitario. Infatti se è chiaro che Marziale viene incontro, con i suoi epigrammi giocosi e ameni, alle esigenze di intrattenimento di un pubblico che non ha necessariamente una preparazione culturale, e delle esigenze culturali, di alto livello, è vero d'altra parte che negli stessi libri di Marziale convivono, con gli epigrammi giocosi, anche epigrammi di impegno letterario assai più arduo, e assai meno attraenti per il lettore medio: sono epigrammi celebrativi e cerimoniali destinati in primo luogo all'élite sociale e culturale contemporanea, e in particolare a quei membri di quell'élite con i quali Marziale intrattiene un rapporto personale. Il libro di Marziale raccoglie dunque in una compagine unitaria una varietà di componimenti rivolti a un pubblico composito che va dall'imperatore in carica allo schiavo colto, dal consolare al tecnico e all'artigiano di qualche cultura: e si deve pensare che tutti i lettori di Marziale, delle più diverse fasce sociali, leggeranno, o almeno proveranno a leggere, tutti gli epigrammi del libro. Il pubblico resta numericamente minoritario, ma abbraccia un insieme socialmente vario di lettori. Non sono pochi i lettori cui anche Marziale fa pervenire i suoi libri attraverso il tramite privato del dono, del prestito, della trascrizione privata;[31] ma la parte di gran lunga più ampia del suo pubblico conosce l'autore solo attraverso il libro pubblicato che si procura in libreria. Questa situazione si è venuta sviluppando gradualmente, ma, come si è visto, essa doveva essere già parzialmente realizzata nell'età ciceroniana, quando un mercato librario già esisteva e quando doveva già esistere una certa base di pubblico generico interessato a conoscere la letteratura contemporanea.

Come nel caso particolare delle raccolte di Marziale si ha evidentemente una accentuata pluralità di categorie di lettori, e una diversità di approcci delle diverse categorie di lettori rispetto ad un unico testo (per quanto al suo interno variegato e "miscellaneo"), così più in generale dobbiamo tener ben presente un fatto importante, che è in realtà del tutto ovvio, ma che mi pare di solito dimenticato negli studi sul pubblico letterario antico e su cui pertanto vorrei ora soffermarmi brevemente. Non è sufficiente distinguere tra diverse tipologie di testi adatte a diversi livelli di competenza dei lettori; non è sufficiente distinguere tra la capacità necessaria per capire in tutta la loro complessità testi letterari raffinati e impegnativi e quella sufficiente per leggere testi più semplici: manuali di cucina, raccolte di favole esopiche, di facezie, di proverbi, sentenze, narrativa amena, manuali tecnici ecc. e dunque distinguere tra i lettori che possono arrivare solo fino a una certa categoria di testi e lettori che hanno accesso anche a testi più complessi. È importante rendersi conto che vi sono anche diversi livelli di approccio allo stesso testo, e che i testi letterari più complessi possono essere conosciuti parzialmente, imperfettamente, superficialmente da lettori che hanno insufficiente capacità, o insufficiente interesse e insufficienti motivazioni per affrontarne una lettura approfondita, ma che non per questo non rientrano in qualche misura nel pubblico di quell'opera. Oggi in Italia pochi hanno letto interamente, ad esempio, la Divina Commedia o le Rime del Petrarca, ma quasi tutti ne hanno letto qualche parte a scuola e hanno dunque una sensazione diretta, anche se parziale, del carattere di queste opere, hanno recepito qualche elemento importante del loro messaggio. Ed anche al di là di ciò che è contemplato dai programmi scolastici, chi non è riuscito ad arrivare fino all'ultima pagina della Recherche o dell'Ulysses, e poco sa dei dibattiti critici su queste opere, ma ne ha comunque lette alcune parti, non può essere escluso dall'orizzonte di pubblico di quelle opere, delle quali ha pur conosciuto, in qualche modo, direttamente il sapore. Così in Roma antica solo pochi, al di là dell'ambito dei professionisti della cultura, avranno avuto la preparazione necessaria per capire in tutta la loro complessità testi letterari raffinati e impegnativi, solo pochi in definitiva, avranno letto integralmente l'Eneide o le opere di Orazio, e pochissimi ne avranno colto tutta la ricchezza di riferimenti culturali. Ma era probabilmente molto alto il numero di coloro che nel corso della loro formazione scolastica e retorica, assistendo a recitazioni pubbliche o private, in incontri e conversazioni tra persone che hanno o ostentano cultura, in letture private almeno occasionali e parziali, avevano potuto rendersi conto in modo almeno approssimativo di quali erano i contenuti, i temi, il linguaggio, i messaggi essenziali degli scrittori già divenuti classici della letteratura romana, o anche degli scrittori contemporanei più affermati, che poteva esser ritenuto doveroso conoscere, e che, come abbiamo visto, potevano anche entrare nei programmi scolastici. I passanti che mostrano a dito Orazio quando lo incontrano per strada (carm. IV 3, 22), gli spettatori di un programma di letture pubbliche che acclamano Virgilio, occasionalmente presente, come un personaggio celebre e popolare (Tac. dial. 13, 2), non saranno che in minima parte dei veri conoscitori della grandezza di questi poeti. Probabilmente pochi di coloro che manifestavano questo riconoscimento per i grandi poeti del tempo avevano letto per intero le loro opere, pochissimi le intendevano davvero: ma essi non dovevano essere comunque estranei a questi testi, dovevano avere un'idea non troppo vaga, fondata su letture parziali o su ascolti di recitazioni di sezioni del testo, dei caratteri essenziali delle loro opere. Almeno attraverso queste forme di conoscenza superficiale e parziale dei testi, la voce del poeta, i suoi messaggi, potevano raggiungere ampi settori e strati differenziati della società, al di fuori di uno stretto ambito di specialisti della cultura, al di fuori del limitato numero di coloro che erano in grado di apprezzarne pienamente la ricchezza e la finezza: potevano in forme semplificate, ridotte, e magari solo come un'eco ormai alquanto distorta, raggiungere vari e incontrollabili settori della società, potevano penetrare nella coscienza di un'opinione pubblica non ristretta, potevano arrivare a costituire un elemento rilevante della formazione culturale e morale della comunità a Roma, in Italia e anche fuori d'Italia. Il pubblico che si diletta di testi di letteratura minore di intrattenimento come la "letteratura per i Saturnali" che ci è testimoniata da Ovidio è un pubblico che per gran parte non avrà la forza o la voglia di condurre una lettura completa e approfondita dell'Eneide, ma che probabilmente ne conoscerà e ne apprezzerà sinceramente almeno alcune parti. Se solo una ristretta élite di addetti ai lavori fosse stata coinvolta nella destinazione delle opere dei grandi scrittori dell'età augustea, non si spiegherebbe tutta l'enfasi che la politica augustea pone sul coinvolgimento della produzione letteraria in un programma di costruzione del consenso intorno ai temi ideologico-politici proposti e propagandati dal principato:[32] un'enfasi che presuppone che una opinione pubblica qualificata, una parte significativa della società, sia coinvolta nella ricezione dei testi letterari.

Quantitativamente il pubblico letterario era certo una modesta minoranza della popolazione, ancora in età augustea e postaugustea: ma si trattava comunque di un "pubblico". Non soltanto una cerchia di relazioni personali intorno al poeta, ma un insieme variegato, con diversi livelli di competenza letteraria; un insieme differenziato, e variamente esteso, anche a seconda dei diversi tipi di testi. Un insieme che coinvolge il vasto arco delle categorie sociali che partecipano in qualche modo, o aspirano in qualche modo a partecipare, direttamente o indirettamente, agli interessi e allo stile di vita delle classi egemoni, che coinvolge tutti coloro che, a diversi livelli, assumono atteggiamenti ricalcati su quelli dell'élite: un insieme i cui precisi lineamenti sfuggono dunque in realtà all'autore stesso, che non è in grado di prevedere i limiti cui si spingerà la diffusione dei suoi messaggi, e che nel comporre i suoi testi sarà portato, a seconda della sua poetica e della natura delle sue composizioni, a tener conto dell'ampiezza dello spettro dei possibili destinatari.




[*] Questo saggio costituisce il capitolo introduttivo del volume di Mario Citroni, Poesia e lettori in Roma antica. Forme della comunicazione letteraria, Roma-Bari, Laterza, 1995.

[1] W. V. Harris, Ancient Literacy, Cambridge Mass.-London 1989 (ed. ital. Lettura e istruzione nel mondo antico, Roma-Bari 1991, da cui cito), pensa (pp. 291-99) che nell'Italia nella tarda repubblica e nel principato la popolazione alfabetizzata fosse inferiore al 15% (inferiore al 2O% nei maschi e al 10% nelle femmine). Per il complesso dell'impero romano egli pensa a un alfabetismo inferiore al 10% (p. 26). J. H. Humphrey (a cura di), Literacy in the Roman World, Ann Arbor 1991, raccoglie vari contributi di discussione al libro di Harris: tutti, in varia misura, avvertono come troppo riduttivo il quadro della diffusione dell'alfabetismo dato da Harris; alcuni mettono in dubbio la significatività delle stime quantitative. G. Cavallo, Gli usi della cultura scritta nel mondo romano, in AA. VV., Princeps urbium. Cultura e vita sociale dell'Italia romana, Milano 1991, p. 200 s., contesta l'opportunità stessa di proporre stime quantitative.

[2] Vari casi sono citati da Harris, che polemizza più volte con questi atteggiamenti modernizzanti. Il volume di G. Achard, La communication à Rome, Paris 1991, intenzionalmente divulgativo e spesso poco rigoroso, concede ancora parecchio a una visione modernizzante in cui appaiono giornali e case editrici (pp. 11 e 189), e in cui la scrittura è accessibile quasi a tutti (p. 62 s.); può comunque essere utile come panoramica degli ampi e vari usi della scrittura nella Roma tardo-repubblicana e imperiale.

[3] Una netta affermazione della limitatezza del pubblico letterario a Roma era già, ad es., in E. Auerbach, Literatursprache und Publikum in der lateinischen Spätantike und im Mittelalter, Bern 1958. Ricostruzioni equilibrate, che fanno giustizia delle vecchie modernizzazioni acritiche mettendo d'altra parte in evidenza la ricchezza e le molteplici articolazioni della cultura scritta nel mondo romano, sono nei vari contributi di G. Cavallo: Dal segno incompiuto al segno negato. Linee per una ricerca su alfabetismo, produzione e circolazione di cultura scritta in Italia nei primi secoli dell'impero, in Alfabetismo e cultura scritta nella storia della società italiana, Atti del seminario tenutosi a Perugia (29-30 marzo 1977), Perugia 1978, pp. 119 ss.; Alfabetismo e circolazione del libro, in M. Vegetti (a cura di), Introduzione alle culture antiche, I Oralità scrittura spettacolo, Torino 1983, pp. 166 ss.; Libro e cultura scritta, in AA. VV., Storia di Roma, IV Caratteri e morfologie (a cura di E. Gabba e A. Schiavone), Torino 1989, pp. 693 ss.; Gli usi della cultura scritta cit., pp. 171- 251. M. Corbier, L'écriture dans l'espace public romain, in L'urbs. Espace urbain et histoire (Ier siècle av. J.-C.-IIIe siècle ap. J.-C.), Acte du colloque intern. org. par le CNRS et l'École française de Rome (Rome 8-12 mai 1985), Roma 1987, pp. 27 ss., richiamandosi a Cavallo, ammette nelle città diffusione larga di un alfabetismo peraltro molto povero. Ulteriore bibliografia negli studi di Harris e di Cavallo. Aggiungo E. A. Meyer, Literacy, Literate Practice, and the Law in the Roman Empire, A. D. 100-600, Diss. Yale Univ. 1988. Di Harris va ricordato anche l'articolo Literacy and Epigraphy, I, «Zeitschr. f. Papirol. und Epigr.» 52, 1983, pp. 87 ss.

[4] Che un numero di lettori anche molto limitato potesse comunque costituire un pubblico variegato e mutevole era ben chiaro a Auerbach, op. cit., pp. 218 ss., il quale da un lato si mostrava pienamente consapevole dell'esiguità numerica del pubblico letterario antico («forse non più di qualche decina di migliaia nei tempi migliori»), ma ne evidenziava anche la varietà nelle condizioni sociali, il ricambio, il costante collegamento con la base popolare, caratteristiche che consentivano a questa «numerosa minoranza anonima» di «sostenere la letteratura».

[5] R. Sommer, T. Pomponius Atticus und die Verbreitung von Ciceros Werken, «Hermes» 61, 1926, pp. 389 ss., ai cui risultati qui mi attengo; una sostanziale conferma in J. J. Phillips, The Publication of Books at Rome in the Classical Period, Diss. Yale Univ. 1981, pp. 40 ss. Cfr. anche R. Feger, RE, Suppl. VIII (1956), cc. 517 ss. e G. Cavallo, Testo, libro, lettura, in G. Cavallo, P. Fedeli, A. Giardina (a cura di), Lo spazio letterario di Roma antica, vol. II, La circolazione del testo, Roma 1989, pp. 316 s.

[6] Cfr. B. A. Van Groningen, Ekdosis, «Mnemosyne» IV s., 16, 1963, pp. 1 ss. e H. I. Marrou, La technique de l'édition à l'époque patristique, «Vigiliae Christianae» 3, 1949, pp. 208 ss.

[7] R. J. Starr, The Circulation of Literary Texts in the Roman World, «Class. Quart.» 37, 1987, pp. 213 ss., alla cui argomentazione rinvia con pieno consenso Harris, op. cit., p. 252. Più moderata, ma simile, la posizione assunta da E. J. Kenney in The Cambridge History of Classical Literature, II. Latin Literature (a cura di E. J. Kenney e W. V. Clausen), Cambridge 1982, pp. 10 ss., secondo il quale la letteratura latina «era in primo luogo... una questione di gruppi e di coteries» anche in ragione del modo "privato" in cui i libri venivano pubblicati e circolavano: la situazione non sarebbe sostanzialmente cambiata neanche in età imperiale, anche se Kenney ammette (pp. 20 e 22) una larga circolazione libraria nel I sec. d. C. Invece Auerbach, op. cit., p. 218, riteneva giustamente che un pubblico "anonimo" (e cioè un pubblico la grande maggioranza dei cui membri restava sconosciuta agli scrittori) ci fosse già nella generazione di Cicerone. Cavallo, Libro e cultura scritta, cit., considera il pubblico "anonimo" assai ristretto e limitato all'Italia, ma certo non inesistente, fino all'età augustea e sostiene efficacemente che nel I sec. d. C. vi è un pubblico "medio" alquanto largo, e molto variegato, un pubblico medio che in parte è capace di recepire letteratura anche complessa (pp. 712 ss.). Una concreta immagine della varietà e complessità della conformazione dell'ambiente intellettuale e del pubblico in età tardo-repubblicana è offerto dal ricco e documentato volume di E. Rawson, Intellectual Life in the Late Roman Republic, London, 1985: se ne ricava che un numero molto considerevole di persone, di ceti diversi, aveva accesso, a vario livello, ai diversi settori dell'attività intellettuale.

[8] Il carattere in qualche modo pubblico o addirittura spettacolare che potevano assumere le letture critiche di testi eseguite da grammatici è stato evidenziato, forse con qualche eccesso, da K. Quinn, The Poet and his Audience in the Augustan Age, in Aufstieg und Niedergang der röm. Welt, II 30, 1, Berlin - New York 1982, pp. 99-105; 151, cui rinvio per la raccolta delle testimonianze.

[9] Alla pratica di eseguire recitazioni poetiche nei teatri fa riferimento Petron. 90, 5 (a proposito di Eumolpo); abbiamo notizia che Nerone recitava le sue poesia a teatro davanti a largo pubblico (Suet. Nero 10, 5; Tac. ann. XIV 14; XV 33 s.). Hor. sat. I 10, 39 potrebbe, a rigore, anche riferirsi solo a testi teatrali, ma epist. I 19, 41 allude abbastanza chiaramente a recitazioni poetiche dell'autore in teatri affollati. Notizie di esecuzioni a teatro delle Bucoliche (Tac. dial. 13, 2; Don. vita Verg. 90 s. Br.; Serv. buc. 6, 11), di carmi ovidiani (Ov. trist. V 7, 25 s. e cfr. II 519 s.: probabilmente si tratta delle Heroides), degli Annales di Ennio (Gell. XVIII 5) si riferiscono non a recitazioni da parte del poeta stesso, ma a forme più propriamente spettacolari di esecuzione, affidate a professionisti. Cfr. G. Funaioli, RE, I A (1914), c. 442, s. v. Recitationes, e Quinn, art. cit., pp. 140 ss., che analizza le diverse forme di recitazione, da quelle a carattere privato a quelle di tipo spettacolare per un largo pubblico. P. White, Promised Verse. Poets in the Society of Augustan Rome, Cambridge Mass. - London 1993, p. 288, segnala che Plinio, epist. VII 4, 9, fa riferimento a esecuzioni con accompagnamento musicale di suoi carmi in endecasillabi; escluderei invece che Hor. sat. I 10, 17- 19 possa essere riferito a simili esecuzioni di carmi di Catullo e Calvo: cantare è spesso usato come equivalente di legere, con riferimento a recitazioni non musicali e private di testi poetici, come è ben dimostrato da W. Allen jr., Ovid's cantare and Cicero's cantores Euphorionis, «Trans. and Proc. Amer. Philol. Ass.» 103, 1972, p. 1 ss.

[10] Il carattere ristretto, privato, del pubblico cui si rivolge il poeta nelle recitazioni è sottolineato con decisione da Starr, art. cit., p. 213 s., ed è probabilmente da ammettere per gran parte delle recitazioni tenute in persona dal poeta stesso (a differenza degli spettacoli poetici con esecutori professionisti di cui si è detto sopra, n. 14, e che dovevano essere limitati a testi di particolare notorietà e successo). In verità le caricature tracciate da Orazio e dai poeti satirici del I sec. d. C. parlano anche di recitazioni in sale molto affollate, e di recitazioni per la strada, nelle piazze, nelle terme, ovunque si trovasse qualcuno disposto ad ascoltare: dunque recitazioni a un pubblico estraneo, ma nell'ambito di una comunicazione poetica degradata (cfr. specialm. Hor. sat. I 4, 74 ss.; Petron. 90, 1; 92, 6). In Tac. dial. 10 2, leggiamo, sia pur nel contesto di un discorso che tende a svalutare le possibilità di diffusione della poesia, che anche in casi singolarmente fortunati la notorietà relativa a una recitazione poetica non riesce a raggiungere l'intera città di Roma e che non c'è speranza che arrivi nelle province. È però notevole che in questo passo si consideri la recitazione, e non il libro, come la modalità attraverso cui il poeta si fa conoscere al pubblico.

[11] Plin. epist. I 13; VI 15; 17. Cfr. anche Tac. dial. 9, 3 e Suet. Claud. 41. Tra i luoghi più noti sul fastidio per le recitazioni, vari epigrammi di Marziale (specialm. III 44); Giovenale 1; 3, 9; la figura di Eumolpo in Petronio.

[12] Sulla pratica di letture a banchetto da parte di un anagnóstes per intrattenimento e istruzione dei commensali nell'età di Cicerone è efficace la testimonianza di Nepote, Att. 14; lettura di un anagnóstes a un singolo uditore ad es. in Cic. fam. VII 1, 3. Sull'estensione dell'uso della lettura personale ad alta voce, uso certo prevalente ma non esclusivo, mi limito a rinviare a B. M. W. Knox, Silent Reading in Antiquity, «Greek Roman and Byzantin Stud.» 9, 1968, p. 421 ss.

[13] Come fa, con evidente forzatura, Quinn, art. cit., p. 90 e cfr. pp. 83 ss. e 145, il quale sostiene con decisione che le opere letterarie (non tecniche) latine si realizzano nella performance e non nella pubblicazione almeno fino all'età augustea. Ma egli stesso ha qualche oscillazione: a pp. 86 e 142 s. riconosce che il poeta si pensa come produttore di testi scritti; a p. 88 vede già in Catullo una produzione che si realizza nella comunicazione scritta e a p. 143 s. considera anche l'Eneide incompatibile con la performance. Nell'età augustea il presupposto della performance sarebbe già anacronistico: i poeti non saprebbero distaccarsi da un modello che non corrisponde più alle modalità di comunicazione dei testi. Sembra di capire che il momento della piena realizzazione della performance pubblica come forma di comunicazione dei testi sarebbe quello della letteratura arcaica: proprio il periodo per il quale scarseggiano o mancano del tutto notizie di recitazioni. Per le proprie opere Cicerone parla solo di recitazioni strettamente private (Att. XVI 2, 6 e 3, 1; e cfr. XII 6, 2 per recitazioni private presso Attico); in off. I 147 si dice che artisti e poeti sottopongono le loro opere al giudizio del vulgus: ma si tratta di un vulgus di competenti che dovrà suggerire correzioni. La priorità del momento performativo nella letteratura latina, già sostenuta ad es. da Auerbach, op. cit., pp. 222 s., è oggi spesso affermata. Cfr. ad es. T. P. Wiseman, Catullus and his World. A Reappraisal, Cambridge 1985, pp. 124 ss., che riprende da Quinn l'analogia con la partitura musicale (analogia proposta con più cautela da Kenney, op. cit., p. 12 e da Cavallo, Gli usi della cultura scritta cit., p.239, in riferimento al prevalente uso, anche personale e privato, di una lettura ad alta voce che è sempre in qualche modo una "esecuzione"). Per Catullo Wiseman ammette una priorità del momento "scritto", che nel suo caso sarebbe spiegabile con la mancanza di interesse per un'ampia circolazione dei suoi testi, quale si sarebbe potuta ottenere con la recitazione orale. La grande frequenza, ammessa anche da Quinn, dei passi in cui i poeti latini, fin dall'età più arcaica, si vedono (e sono visti) come produttori di testi scritti è illustrata efficacemente da A. La Penna, L'autorappresentazione e la rappresentazione del poeta come scrittore da Nevio a Ovidio, «Aevum Antiquum» 5, 1992, pp. 143 ss.

[14] Su questo tipo di letteratura è fondamentale A. Hardie, Statius and the Silvae. Poets, Patrons and Epideixis in the Graeco-Roman World, Liverpool 1983, che sottolinea come questa produzione poetica professionale rientrasse in una tradizione greca e greco-ellenistica piuttosto che nella tradizione letteraria romana. In questo ambito si possono far rientrare componimenti quali il Carmen saeculare di Orazio, che fu pubblicato, ma anche carmi come quelli che Ovidio scrisse per la morte di Messalla o per il matrimonio di Paolo Fabio Massimo, che furono eseguiti ma, a quanto pare, non pubblicati.

[15] Quinn, art. cit., p. 143 s.

[16] Le testimonianze principali brevemente in Cavallo, Libro e cultura scritta cit., pp. 715 s. Un quadro più ampio, ma non sempre affidabile, in T. Kleberg, Bokhandel och bokförlag i antiken, Stockholm 1962 (trad. it. Commercio librario ed editoria nel mondo antico, in G. Cavallo (a cura di), Libri, editori e pubblico nel mondo antico. Guida storica e critica, Roma-Bari 1975, pp. 40 ss.). Ricca documentazione in K. Dziatzko, RE, III (1897), cc. 973-85, s. v. Buchhandel. Trattazione equilibrata in Phillips, op. cit. Varie notizie sulle possibilità di accesso ai libri presso le biblioteche private (accessibili solo all'élite) e pubbliche, e presso il mercato librario, in A. J. Marshall, Library Resources and Creative Writing at Rome, «Phoenix» 30, 1976, pp. 252 ss. Sulla disponibilità di libri e sulla variabile qualità della produzione libraria nell'età di Cicerone importanti precisazioni in Rawson, op. cit., pp. 39-45. Per la circolazione di libri greci nei periodi ellenistico e imperiale cfr. anche P. E. Easterling in The Cambridge History of Classical Literature, I, Greek Literature (a cura di P. E. Easterling e B. M. W. Knox), Cambridge 1985, pp. 19 ss.

[17] Cic. Q. fr. III 4, 5; 5, 6. L'esistenza di tabernae librariae è attestata anche in Phil. II 21. Strabone, XIII 1, 54, parlando di librai che, a Roma, avrebbero prodotto copie poco accurate di libri della biblioteca di Apellicone, dopo che questa venne in possesso di Silla, osserva che i libri prodotti per la vendita sono spesso di cattiva qualità, a Roma come ad Alessandria: ciò è in sintonia con le valutazioni di Cicerone sulla qualità dei libri che si trovano in commercio, ma mostra comunque che vi era produzione e commercio di libri greci a Roma tra età sillana e prima età augustea. Anche il diffondersi di edizioni non autorizzate sembra presupporre un vivo interesse commerciale nella produzione libraria tra l'età di Cesare e l'età di Augusto. White, op. cit., p. 51 s., che insiste su questo punto, cita i casi di orazioni di Cesare (Suet. Iul. 55, 3) e di Cicerone (Ascon. p. 42, 2 ss. Cl.) e di testi di Quintiliano (inst. VII 2, 24); si può aggiungere il caso di Diodoro Siculo (I 5, 2 e XL 8) e per il II sec. d. C., cfr. Galen. 19, 9 s. K., che lamenta la circolazion 0commerciale non autorizzata di scritti destinati a restare nell'ambito della scuola. Iccio, della cui passione per la filosofia Orazio amabilmente denuncia la superficialità, era riuscito a procurarsi sul mercato, sia pure, come pare che Orazio suggerisca, con qualche fatica (coemptos undique) una sua biblioteca filosofica (Hor. carm. I 29, 13 s.). L'allestimento di biblioteche pubbliche avvenuto in età augustea poteva fondarsi, oltre che sul mercato, su copie redatte ad hoc da esemplari rintracciati anche attraverso il ricorso alle biblioteche private.

[18] Questo punto è giustamente sottolineato da Phillips, op. cit., p. 24. Ricordiamo anche che nel c. 55 Catullo dice di aver cercato inutilmente l'amico Camerio per tutti i più frequentati luoghi di ritrovo di Roma, ed anche in omnibus libellis. L'interpretazione del passo è discussa, ma è probabile che significhi «in tutte le librerie», che sarebbero dunque state al tempo di Catullo numerose e molto frequentate: cfr. T. P. Wiseman, Looking for Camerius: the Topography of Catullus 55, «Papers of the British School at Rome» 48, 1980, pp. 8 ss. (rist. in T. P. Wiseman, Roman Studies. Literary and Historical, Liverpool 1987, pp.178 ss.).

[19] Hor. sat. I 4, 71 (e forse 21 s.); epist. I 20. Cfr. anche ars 345 e 373 ove la riuscita di un'opera si misura col suo successo, anche commerciale, nelle librerie; in seguito analogamente Mart. XIV 194, a proposito di Lucano.

[20] Su questo componimento vd. M. Citroni, Le raccomandazioni del poeta: apostrofe al libro e contatto col destinatario, «Maia», 38, 1986, pp. 111 ss.

[21] Cic. Att. IV 14, 1: nel 54 Cicerone per consultare opere di Varrone deve valersi della biblioteca di Attico. È evidente che non dovevano essere molti a possederle, se mancavano a Cicerone. Sul bisogno di Cicerone di ricorrere alle biblioteche di ricchi amici quali Attico e Lucullo cfr. Marshall, art. cit., p. 257.

[22] Così Starr, art. cit., p. 215, n. 19. Viceversa Rawson, op. cit., p. 44, osserva che da Plinio, nat. XXXV 11, si ricava l'impressione che delle Imagines di Varrone, che pur richiedevano la riproduzione di 700 ritratti, ci fossero molti esemplari sparsi per il mondo. Interessante l'ipotesi della stessa Rawson (p. 243) che il De vita populi Romani, in soli 4 libri, fosse rivolto a un pubblico più ampio di quello che poteva riuscire a procurarsi e a leggere le vaste Antiquitates.

[23] Sen. benef. VII 6, 1, nomina un Dorus librarius che a buon diritto potrebbe dire suoi dei libri di Cicerone di cui egli è l'emptor, e che potrebbe trovarsi a vendere una copia di Livio a Livio stesso: si tratta di esempi teorici, che non dimostrano la reperibilità corrente di edizioni intere di Livio presso i librai. Dell'opera di Livio a quanto pare venivano messe in vendita epitomi già al tempo di Marziale (XIV 190).

[24] Cic. Tusc. IV 6 s. (Amafinii) libris editis, commota multitudo contulit se ad eam potissimum disciplinam... Post Amafinium... multi eiusdem aemuli rationis multa cum scripsissent, Italiam totam occupaverunt («a seguito della pubblicazione dei libri di Amafinio una folla di persone ne rimase colpita e si consacrò in particolar modo a quella dottrina... dopo Amafinio, molti seguaci di quella stessa scuola scrissero molte opere e si conquistarono tutta l'Italia»). La scarsa consistenza culturale degli scritti di Amafinio è sottolineata anche in acad. I 5; fam. XV 19, 2 e cfr. fam. XV 16. In altri due passi delle Tusculanae (I 6 e II 7) Cicerone parla invece di opere di divulgatori latini di filosofia, e in particolare di epicureismo, che sono scritte in modo così disgraziato da non trovare altri lettori che gli autori stessi e l'intima cerchia degli adepti della loro dottrina: non fa nomi, ma sembra assai probabile che si riferisca anche al disprezzato Amafinio che nel libro IV gli appare al contrario incontrare un immeritato successo di pubblico. In entrambi i passi si dovrà mettere in conto una forzatura polemica: da un lato sul successo che la faciloneria può conseguire presso il volgo, e d'altro lato sul fatto che nessuno (ossia: nessuna persona per bene) potrebbe leggere opere così prive di meriti concettuali e formali.

[25] «...cuius scripta per totum orbem terrarum celebrarentur»: Sen. suas. 7, 11. Su questo passo, e in generale sugli ambiti di circolazione delle versioni scritte di testi oratori, specialmente ciceroniani, cfr. la limpida messa a punto di E. Narducci, Oratoria pronunciata, oratoria scritta e formazione del consenso: l'eloquenza di Cicerone come prodotto letterario, in Cedant arma. Letteratura, parole d'ordine e organizzazione del consenso nel mondo antico, Como 1991 («Incontri del Dipartimento di Scienze dell'Antichità», Univ. di Pavia, IV), pp. 33 ss.

[26] Cic. fin. V 52. Rawson, op. cit., p. 49, mette in evidenza come Cornelio Nepote tenga conto di un pubblico di cultura limitata, un vulgus (cfr. Pelop. 1, ma vedi sopra, n. 19 per il valore generico, di vulgus e vulgo) di expertes (o rudes)Graecarum litterarum, un pubblico che ha bisogno di un rimedio alla sua ignorantia (prol. 1 ss.) e che trova in quest'opera un linguaggio di facile accesso. Poiché d'altra parte si tratta di un'opera in 16 libri, il cui costo doveva essere rilevante, la Rawson pensa che fosse destinata a una classe media. La Rawson nota anche che molti, al di là dei limiti dell'aristocrazia romana, e in particolare tanti veterani di tutta Italia, dovevano essere ansiosi di leggere i Commentarii di Cesare, nei quali forse anche in considerazione di questo pubblico si dà tanto spazio alle azioni dei singoli soldati, e rileva che Bellum Africum e Bellum Hispaniense sono stati scritti da ufficiali di rango non molto alto (non facevano parte del consiglio di Cesare) e di limitata cultura.

[27] M. Citroni, Letteratura per i Saturnali e poetica dell'intrattenimento, «Studi Ital. Filol. Class.» III s., 10, 1992 (Atti del IX Congresso della F. I. E. C., Pisa 24-30 agosto 1989), pp. 425 ss., e un po' più ampiamente, Id, Marziale e la letteratura per i Saturnali (poetica dell'intrattenimento e cronologia della pubblicazione dei libri), «Illinois Class. Stud.» 14, 1989, pp. 201 ss.

[28] Cfr. specialmente Cic. de or. III 43 e Arch. 5 e, su questi passi, T. P. Wiseman, Domi nobiles and the Roman Cultural Élite, in Les "bourgeoisies" municipales italiennes aux IIe et Ier siècles av. J.-C (Centre J. Bérard, Inst. Français de Naples 7-10 déc. 1981 - Colloques intern. du CNRS n. 609), Paris - Naples 1983, pp. 299 ss. (rist. in Roman Studies cit., pp. 297 ss.) e Rawson, op. cit., pp. 32 e 34.

[29] Sulla distinzione tra le differenziate capacità di approccio a diverse categorie di testi da parte di diverse componenti del pubblico insiste giustamente Cavallo, Dal segno incompiuto al segno negato cit., pp. 138 ss.; Alfabetismo e circolazione del libro cit. pp. 178 ss.; Libro e cultura scritta cit., p. 714. Il carattere socialmente composito del pubblico letterario era già evidenziato da Auerbach, op. cit., pp. 219 s., il quale d'altra parte invitava molto opportunamente a non considerare come entità del tutto separate pubblico colto e pubblico "popolare". Come dirò anche tra poco, i libri di Marziale, che raccolgono in un unico insieme carmi che richiedono nel lettore diversi livelli di cultura e diversi interessi di lettura e che postulano una gamma socialmente molto diversificata di lettori, dimostrano che non vi sono barriere nette tra i diversi ambiti di competenza del pubblico.

[30] Cfr. L. Friedlaender, Darstellungen aus der Sittengeschichte Roms in der Zeit von Augustus bis zum Ausgang der Antonine, Leipzig 192210, rist. Aalen 1964, I pp. 296 ss. e cfr. p. 27O ss.; Rawson, op. cit., pp. 46 ss.; 52. Kenney, op. cit., p. 9, osserva che il pubblico femminile si distingue da quello maschile per il fatto che non ha alle spalle un regolare corso di formazione retorica. La Rawson, p. 48, nota che lo stesso si può dire del pubblico dei liberti.

[31] Cfr. M. Citroni, Pubblicazione e dediche dei libri in Marziale, «Maia» 40, 1988, pp. 3 ss.

[32] Così giustamente Quinn, art. cit., p. 79 s. 5


Go to Arachnion nr. 1 - contents or to Arachnion - home page


Last technical revision June, 9, 1995.

This document (http://www.cisi.unito.it/arachne/citroni.html) is part of «Arachnion - A Journal of Ancient Literature and History on the Web» (http://www.cisi.unito.it/arachne/arachne.html). The editors are Maurizio Lana and Emanuele Narducci. The journal is distributed by the host of CISI - Università degli Studi di Torino, Via Sant'Ottavio 20, I-10124 Torino .
Quoting this document, please remember to mention the original paper edition, if any, and the electronic edition of Arachnion (in the form: Arachnion. A Journal of Ancient Literature and History on the Web, nr. 1 - http://www.cisi.unito.it/arachne/citroni.html). If you like to access this document through a WWW page, please create a link to it, not to a local copy.