Go to Arachnion nr. 1 - contents or to Arachnion - home page


Noi e l'antico

di Antonio La Penna (Firenze) [*]


Sommario



1. Non norma, ma germe


Il titolo di queste mie riflessioni [...] richiama di proposito il titolo di un libretto diffuso all'inizio del nostro secolo: L'antico e noi di Taddeo Zielinski. Vi erano raccolte otto lezioni che l'autore, un filologo noto fra gli specialisti, formatosi, come, più o meno, quasi tutti i filologi classici di allora, alla scuola tedesca, aveva tenuto nella primavera del 1903 a Pietroburgo e che erano state tradotte in tedesco[1]. In Italia, come in Germania e in Russia, l'insegnamento del greco e del latino nelle scuole medie era messo in discussione e attaccato, più o meno energicamente, da chi esigeva una scuola moderna con forte prevalenza di insegnamenti scientifici e tecnici (una battaglia che, com'è ben noto, in situazioni diverse, si è poi ripetuta e si ripete): quindi la Società Italiana per la Diffusione e l'Incoraggiamento degli Studi Classici (più conosciuta col nome di «Atene e Roma», il titolo della rivista che ne era l'organo) promosse e curò la traduzione del libro dello Zielinski (tra i traduttori troviamo Carlo Michelstädter e Scipio Slataper[2]). Ora che il secolo (anzi il millennio) volge al termine, può riuscire utile, nel riprendere la questione, tante volte dibattuta, del significato e del valore che l'antichità greca e latina ancora ha per noi, partire da un confronto con le opinioni dello Zielinski, che non erano certo isolate e riscossero un notevole consenso.

Qui si può prescindere dal dibattito che allora si svolgeva, sulla scuola e l'insegnamento delle lingue classiche, nella Russia zarista: alla difesa e al rafforzamento della cultura classica nella formazione dei giovani lo Zielinski intendeva dare una validità generale o, almeno, europea. Il suo primo argomento era che, là dove l'insegnamento delle lingue classiche era stato introdotto, la scuola aveva dato ottimi risultati: la scuola classica aveva costituito un grande fermento di civiltà e di progresso: greco e latino erano un alimento collaudato dello spirito, come il pane per il corpo: perché cambiarlo?

La grande efficacia formativa dell'insegnamento delle lingue classiche consisteva, secondo lo Zielinski, nel metodo. Basandosi sulla psicologia, allora in voga, di W. Wundt, egli distingueva, nel metodo di studio delle lingue, fra metodo associativo e metodo appercettivo: nell'associazione l'attenzione rimane passiva e ci si limita a riprodurre meccanicamente gli usi linguistici; con l'appercezione si analizzano gli usi linguistici, ci si rende conto delle cause, se ne definiscono i modi; col metodo associativo si impara la lingua materna, col metodo appercettivo si studiano le lingue classiche[3]. Queste, più delle lingue moderne, offrono materia adatta all'esercizio efficace per una formazione intellettuale, perché hanno carattere intellettuale, mentre le lingue moderne hanno carattere «sensualistico». Lo Zielinski assegnava una grande funzione all'analisi lessicale, etimologica, semantica, sintattica, ma valorizzava adeguatamente anche l'esercizio di interpretazione dei testi classici nel loro contesto culturale e storico e si mostrava buon seguace della filologia classica del XIX secolo[4].

Ecco dei concetti da cui ci sentiamo ben lontani. Anche ammesso, per quanto sia dubbio, che si possa accettare una distinzione vagamente simile a quella fra metodo associativo e metodo appercettivo, non si vede perché il metodo appercettivo non si possa applicare alla lingua materna, o, ancora meglio, ad una lingua straniera: anche concesso che il russo, in quanto povero di sintassi[5], fosse poco adatto allo scopo, lo Zielinski avrebbe potuto proporre per le scuole russe il tedesco invece del latino e del greco; sarebbe assurdo sostenere che la lingua di Omero o di Saffo è intellettuale, quella di Kant o di Goethe «sensualistica».

Si può concludere, dopo questa obiezione, che il problema affrontato dallo Zielinski sia oggi superato, sepolto? Sì e no. È superato perché quasi più nessuno oggi attribuirebbe al greco e al latino le qualità e le funzioni privilegiate che attribuiva loro il dotto filologo; non è superato perché è dubbio che nelle nostre scuole lo studio di altre lingue abbia assunto il compito che un tempo era affidato allo studio del latino. Quando, una trentina d'anni fa, in previsione della riforma che avrebbe istituito la scuola unitaria dell'obbligo, fu vivacemente dibattuto il problema della presenza o meno del latino nel triennio di quella scuola, io, per ragioni che non sto a ripetere, fui favorevole alla soppressione, ma mi preoccupai di avvertire che l'analisi della lingua rivolta a dare il dominio dell'espressione doveva essere applicata, preferibilmente con metodi nuovi suggeriti dallo sviluppo della linguistica, all'italiano o ad una lingua straniera; ed è ovvio che i docenti a cui tocca questo compito dovrebbero avere una competenza di storia della lingua, il che implica, nell'insegnamento di qualsiasi lingua europea, una conoscenza non superficiale del latino e della cultura classica. Sarebbe rischioso affermare che oggi il vuoto sia stato riempito; e questa è una delle ragioni per cui giovani anche laureati hanno difficoltà ad organizzare semanticamente, sintatticamente, logicamente la loro espressione. Ormai dobbiamo interrogarci e decidere se, nell'età dell'elettronica, l'organizzazione dell'espressione scritta e orale sia un'esigenza trascurabile, e lasciare, quindi, che essa frani, o determinare nelle scuole una svolta nell'insegnamento delle lingue.

Su questo punto, comunque, il distacco da posizioni prevalenti prima dell'ultima guerra mondiale mi pare definitivo; ma, nel propugnare l'utilità della cultura classica nella scuola, lo Zielinski sostiene un principio di cui non si può dire, frettolosamente, che è superato: è il principio che egli riassume nel motto: «non norma, ma germe»[6]. Egli vuol dire che, nel cercare e definire orientamenti validi nella cultura e nella vita, nella letteratura, nelle altre arti, nella religione, la filosofia, la politica, non dobbiamo rivolgerci alla cultura classica per trovarvi delle regole ancora valide, ma, se vogliamo capire buona parte dei problemi fondamentali che la cultura e la vita ci pongono, dobbiamo partire dalle risposte che ad essi diedero gli antichi, perché buona parte dei nostri gusti e dei nostri concetti partono di là e nessuna comprensione, che non voglia restare alla superficie, può prescindere dalle origini. Torneremo su questo punto.

2. Interpretazioni dell'antichità e valori attuali nell'Ottocento e nella prima metà del Novecento

Nel rifiutare il culto dell'antico come norma lo Zielinski accetta una posizione di gran lunga prevalente al suo tempo; inutile aggiungere che quella posizione resta sempre valida. Il culto dell'antico come norma fu proprio, com'è ben noto, di quella forma di cultura che chiamiamo classicismo. Qui non è il caso di chiarire che sotto quel nome si comprendono forme di cultura di notevole varietà per situazioni storiche e per orientamenti, né di rivendicare quanto di utile si ricavò dalla riscoperta e dall'interpretazione della cultura antica; importa solo ricordare che il culto dei classici come modelli, se riuscì a sopravvivere alla querelle des anciens et des modernes, se, anzi, si conciliò con la grande spinta progressiva dell'illuminismo, fu eliminato dai vari orientamenti di cultura che comprendiamo sotto il nome di romanticismo. Non per questo scomparve lo studio degli antichi, che nell'Ottocento ebbe una presenza e un'incidenza estese ben al di là degli ambienti accademici; direi, semplificando, che, se nell'antichità non si cercarono più modelli e norme, vi si cercarono spesso dei valori. Come già alcuni umanisti del primo Quattrocento, come parecchi illuministi e rivoluzionari del Settecento, i nostri patrioti risorgimentali credettero di ritrovare nella Roma repubblicana i loro ideali di libertà e il loro odio dei tiranni; nella Roma antica trovavano una legittimazione al loro sogno di un nuovo primato dell'Italia risorta. Il liberalismo inglese si rivolgeva con più vivo amore verso la libera Atene anteriore al dominio macedone; nel continente si sviluppò un'ideologia cesarista, che vagheggiava un potere forte e accentrato, sostenuto da un profondo consenso popolare; in Germania l'unificazione dei vari Stati tedeschi in uno Stato potente fu vista come un processo affine all'unificazione delle turbolente e rissose póleis greche nell'impero di Alessandro Magno. Fra le due guerre mondiali in Germania e in Italia si cercarono ancora più solidi agganci al mondo antico. Il nuovo umanesimo di Werner Jaeger indicò nella cultura greca classica, specialmente in Platone, la base solida e perenne per una fede nella superiorità spirituale dell'uomo sulla natura, dell'uomo cólto sul volgo, dell'uomo europeo, erede della cultura greca, sugli altri uomini: quella fede avrebbe dovuto servire a salvare i Tedeschi dal caos materiale, politico, etico in cui annaspavano dopo la sconfitta nella prima guerra mondiale: bisognava ancorarsi a valori antichi e stabili; dopo la seconda guerra mondiale lo Jaeger accentuò ancora il suo platonismo e valorizzò la sintesi di cultura greca e messaggio cristiano. Latinisti tedeschi si ancorarono ai valori della cultura latina che più servivano a cementare l'unità della società e dello Stato, ad assicurare nel popolo ordine, disciplina, devozione a un potere politico forte, laboriosità, spirito di sacrificio: fiorì, quindi, una letteratura, in parte tutt'altro che disprezzabile per l'impianto storico-sociologico e per la competenza, su fides, auctoritas, res publica, concordia ecc. È facile immaginare come questo orientamento desse un piccolo contributo alla nascita e alla crescita del nazismo[7]. In Italia il fascio littorio simboleggiava la concordia delle classi, primo presupposto della grandezza di Roma antica; la Roma antica imperiale serviva a legittimare le aspirazioni dell'Italia fascista al dominio sul Mediterraneo e alle conquiste coloniali in Africa[8]. Già nei secoli precedenti dall'antichità greca e latina si erano ricavate ispirazioni politiche e morali diverse, persino opposte, dal culto per la libertà repubblicana alla giustificazione della monarchia: Tacito, per esempio, fu considerato un maestro della ragion di Stato, insegnò a sopportare tiranni e re operando dignitosamente per il bene pubblico; il medesimo Tacito fra Settecento e Ottocento fu considerato anche come ispiratore dell'odio contro i tiranni; ma la varietà di ispirazioni e di interpretazioni certamente si arricchì nell'età, fecondissima di cultura, che va da Napoleone alla seconda guerra mondiale; se ciò dipende molto dalla libertà delle deformazioni ideologiche, molto dipende anche dal fatto che nell'antichità classica si comprende un millennio e mezzo di storia: su un arco di tanta ampiezza ognuno poteva ricavare un pezzo utile ai suoi fini, anche senza deformare troppo la verità storica; anzi va ricordato che, se le ispirazioni politiche diedero un buon contributo alle deformazioni, posero anche molti problemi nuovi, offrirono vivi stimoli alla ricerca, e costituirono le spinte più efficaci al progresso della storiografia sul mondo antico; purtroppo in alcuni casi non solo posero i problemi, ma pretesero di darne la soluzione in anticipo[9]. Naturalmente dopo la rivolta romantica è molto difficile trovare, anche nelle opere di scrittori fedeli al classicismo, tragedie, commedie, liriche o poemi epici scritti secondo le norme che si ricavavano, o ci si illudeva di ricavare, dai poeti greci e latini; ma, più o meno efficaci, più o meno visibili, i fermenti delle letterature classiche sono ancora operanti anche in scrittori romantici, come, per esempio, Manzoni e Victor Hugo; sono più o meno noti i ritorni ai classici, con ispirazioni talvolta paganeggianti, dopo il romanticismo, in Francia, Italia, Germania (in Italia solo dopo Pascoli e D'Annunzio si avverte nella poesia un distacco più netto, e non senza eccezioni, dalla cultura classica). Si tratta, generalmente, di fiammate non molto durature, di non grande vigore; ma l'incidenza della cultura greca e latina, anche nell'Ottocento, fino a una parte del Novecento, non si misura dalle tracce delle letterature classiche nei motivi, nelle forme letterarie, nello stile, tracce, comunque, sempre assai lontane da quelle che appaiono vistosamente nel classicismo preromantico: l'incidenza si misura dal fatto che importanti svolte del pensiero implicano in misura non marginale una nuova interpretazione del pensiero antico, si misurano con esso. Il caso più evidente è quello di Nietzsche, che parte dalla riscoperta delle radici irrazionali della cultura greca per avanzare verso una delle più importanti e più radicali critiche del cristianesimo e del pensiero moderno; la filosofia di Heidegger cerca agganci essenziali nel pensiero presocratico, sia giusta o meno, sul piano storico, l'interpretazione che ne dà. Dopo Nietzsche, condizionata da Nietzsche, v'è stata in Germania una rinascita apollinea e platonica. Insomma, se il classicismo trovava modelli nell'antichità e si associava volentieri, ancora nell'Ottocento, con illuminismo e anche materialismo, l'anticlassicismo e la rivolta contro la ragione, fenomeni qualche volta uniti, hanno cercato radici in un nuova interpretazione dell'antichità, specialmente dell'antichità greca[10].

Nel lungo periodo a cui mi riferisco, la molteplicità di interpretazioni e di agganci è stata favorita anche dall'ampliarsi dell'orizzonte nella conoscenza dell'antichità greca e latina. Il classicismo privilegiava decisamente un'area non ampia della cultura antica: per la Grecia Omero e il periodo attico, con l'aggiunta di Pindaro, Teocrito e Plutarco, per Roma il periodo da Catullo e Lucrezio a Ovidio, con l'aggiunta di Tacito; dal romanticismo a oggi i gusti letterari, artistici, gl'interessi storici hanno scoperto, si può dire, intere aree: dapprima la cultura alessandrina ed ellenistica e, press'a poco nello stesso tempo, fra Ottocento e Novecento, i lirici arcaici e la scultura arcaica; in seguito Plauto, Seneca, la tarda cultura latina. Non si trattava, e non si tratta, di ridimensionare, come si dice oggi, gli scrittori che i classicisti prediligevano: questa sarebbe impresa velleitaria e arbitraria; si trattava, e si tratta, da un lato, di reinterpretarli. Un esempio istruttivo è quello di Sofocle: il classicismo di gusto winckelmanniano lo metteva molto in alto, ma un po' lo imbalsamava come il tragico sommo, dalla nobile e composta serenità; dopo Nietzsche, dopo Perrotta lo sentiamo come un tragico molto meno sereno, ma non meno potente; il culto di Sofocle costituiva un ostacolo alla giusta valorizzazione della grandezza di Eschilo: oggi siamo ben lontani da una tale situazione. Si trattava, e si tratta, d'altro lato, di rimuovere gli ostacoli che il classicismo poneva a una giusta lettura e comprensione di scrittori come i lirici greci prima di Pindaro, Callimaco, Plauto, Seneca, Agostino, Girolamo. Già prima dell'ultima guerra mondiale gli ostacoli erano stati rimossi, e oggi siamo lontani anche dal pericolo di cadere in assurdità come quelle dei decadentisti francesi di un secolo fa, che esaltavano Lucano o Apuleio per mettere al bando Virgilio e Orazio.

3. L'antichità non è più fonte di valori eterni. Il distacco dall'antichità dopo l'ultima guerra

La seconda guerra mondiale ha determinato anche nell'atteggiamento verso la cultura classica mutamenti di cui non è facile misurare la portata. Da quasi mezzo secolo l'antichità ha cessato di essere un'area privilegiata per la ricerca di modelli, di norme o di valori eterni; personalmente non esito ad affermare che ciò costituisce un progresso: progresso nella cultura strettamente connesso con quello complessivo della società. L'uso perverso che fascismo e nazismo avevano fatto dell'eredità classica, fu una delle ragioni del cambiamento, ma certamente non la più importante; convergevano almeno due ragioni di maggior peso. L'una fu la vittoria della democrazia che diede una forte spinta allo sviluppo democratico, al bisogno di partecipazione delle masse al dibattito e alle decisioni politiche (fino a che punto la spinta si sia effettivamente realizzata è un'altra questione che qui possiamo tralasciare): nell'educazione si sentì il bisogno di una fase decisiva che formasse il cittadino libero e democratico attraverso una cultura più unitaria, non discriminante, più moderna: era difficile trovare in questa fase uno spazio adeguato al contatto diretto con testi latini o greci; apparve assurda la pretesa di far studiare a tutti il latino nella scuola dell'obbligo; non si è tornati indietro, non è possibile tornare indietro, benché emergano ogni tanto velleità di rompere la struttura unitaria della scuola dell'obbligo e di reintrodurre il latino in una sezione. Dopo l'ultima guerra mondiale si diffuse sempre più la coscienza che le esigenze e le forme nuove di democrazia erano fenomeno recente, connesso con lo sviluppo della grande industria: sarebbe apparso ridicolo andare alla ricerca di modelli nell'antichità, in società formate in gran parte di schiavi, ad Atene, a Sparta o a Roma. L'altra ragione era il bisogno di un'educazione che tenesse il passo con il forte progresso scientifico e tecnico degli ultimi due secoli; naturalmente il bisogno si era manifestato, più o meno vigorosamente, da circa un secolo, ma non aveva mai avuto effetti soddisfacenti. La seconda ragione convergeva, come ho detto, con la prima, ma oltre un certo limite era, e resta più che mai, opposta: l'accentuazione della formazione scientifica e tecnica, se prevale nettamente, crea il lavoratore ben integrato nel processo economico, il cittadino robot, non il cittadino libero e democratico. Mi limito a questi accenni molto inadeguati: per capire perché e come sia mutata nell'ultimo mezzo secolo l'interpretazione dell'antichità classica, bisognerebbe inserirla nei mutamenti generali della cultura, della civiltà e della società: compito vastissimo, forse inesauribile. Il mutamento eliminò le tracce, ancora tenaci nell'Ottocento e nella prima metà del Novecento, specialmente nelle scuole medie e nell'Università, di retorica e di classicismo. Sono scomparsi, per esempio, gli esercizi di traduzione in latino e di composizione in latino: oggi il contatto con testi in lingue che non sono più vive è mirato alla comprensione, all'interpretazione linguistica e storica; la prassi scolastica può attingere a studi in cui la filologia ha ripreso il suo giusto posto, un tempo non sempre riconosciuto adeguatamente dalla cultura idealistica e storicistica. D'altra parte sono stati assimilati e acquisiti i risultati migliori della polemica anticlassicistica condotta da storicismi di vario tipo e specialmente dallo storicismo idealistico italiano: oggi il contatto con testi greci e latini non si limita più ad un canone ristretto di «classici», ma si estende a scrittori di ogni età e di ogni genere; l'ammirazione, certo non infondata, per l'età «aurea» di una letteratura non funziona più da paraocchi; è definitivamente superata, in base ad un concetto più giusto del rapporto tra originalità e tradizione, la svalutazione della letteratura latina come poco splendido riflesso di quella greca. Naturalmente il presupposto di questo più vario e più ampio contatto con i testi antichi è nell'immenso sviluppo che la filologia classica e la storiografia sull'antichità hanno avuto in Europa, e soprattutto in Germania, dalla fine del Settecento alla metà del nostro secolo, creando un patrimonio ricchissimo di conoscenze e di interpretazioni a cui non finiremo mai di attingere; eppure in quello sviluppo la nostalgia dell'antico, l'idea di una perfezione, di una serenità e di un vigore perduti e mai più riacquistati tardarono a morire; neppure oggi è impossibile trovarne traccia in critici e storici di notevole statura; si può affermare, tuttavia, che ci siamo generalmente liberati dal culto della nobile serenità ellenica.

Dunque un profondo distacco dall'antico si è operato nell'ultimo mezzo secolo: quasi tutti guardiamo all'antichità come a un mondo altro dal nostro, non come a un patrimonio da venerare e da cui attingere valori perenni. Tuttavia è generalmente riconosciuto che l'attenzione per l'antichità non è diminuita: è molto cambiato il modo di guardare, non è calato l'impegno di conoscere e di capire: una prova, ma non la sola, è nella vastissima produzione di studi sull'antichità, a cui, oltre l'Europa, contribuiscono oggi paesi come gli Stati Uniti e, sia pure in misura minore, l'America latina, il Sud Africa, il Giappone. Ormai il mondo antico appartiene alla storia, non all'attualità, ma nella storia conserva un posto imponente, anche se non dominante. Tuttavia l'attenzione diffusa non si può ridurre a questo: negli studi classici, nell'interesse non specialistico per il mondo antico persiste giustamente la coscienza che quel mondo non costituisce una fase chiusa in sé, bensì una ricchezza di cultura che ha operato per millenni nella civiltà dell'Europa, almeno fino a ieri, cioè almeno fino alla prima metà del nostro secolo; sarà stato assurdo, talvolta sarà stato illusorio cercare modelli e valori nell'antichità classica, ma sarebbe assurdo, d'altra parte, voler capire la storia europea ignorando quella ricerca. Tramontati gli ultimi tentativi di neoumanesimo, oggi siamo abbastanza consapevoli delle grandi deformazioni storiche a cui ha portato il culto dell'antichità classica. Sulla continuità fra cultura classica e cultura europea moderna si è insistito fino al punto di ignorare le rotture e i conflitti, di svalutare la spinta progressiva delle rivoluzioni; talvolta persino la novità del cristianesimo come teologia e come etica è stata schiacciata sotto il peso dell'eredità greca e latina, che, ovviamente, nel cristianesimo è importante. A forza di insistere sui valori perenni si è giunti a concepirli come immobili e immutabili, a considerare la cultura europea moderna, la cui originalità e fecondità, dagli ultimi secoli del Medioevo a oggi, sono immense, come una semplice continuazione o un naturale sviluppo della cultura classica. Paradossalmente i vari neoumanesimi, orientamenti tutt'altro che rivoluzionari, sembravano accostarsi all'illuminista francese Mably, secondo cui «nella storia antica si trova tutto ed è inutile curarsi della storia moderna, che non contiene che cose sciocche e grossolane»[11]. Liberi da errori del genere, oggi dobbiamo cercare di capire la cultura moderna, tenendo conto, come e quanto è necessario, del ruolo essenziale che in essa ha avuto l'interpretazione della cultura antica: ne deriva la necessità della conoscenza della cultura antica per chiunque voglia capire le manifestazioni della cultura europea moderna in modo non superficiale. Mi pare superfluo addurre esempi.

Credo che si debba fare ancora un passo avanti. La necessità di conoscere la cultura antica per lo storico dell'Europa è molto, ma non è tutto. Ci sono problemi che, in situazioni molto diverse, in base ad esperienze molto diverse, si dibattono da millenni, e restano sempre aperti, quindi attualissimi. Quali i rapporti fra l'individuo, la persona, e lo Stato? che cosa è la libertà politica? che cosa la libertà morale? che cosa la democrazia? quali i rapporti fra la scienza disinteressata e la prassi? quali i rapporti fra la scienza pura e l'applicazione tecnica? Per affrontare tali problemi è molto utile, se non necessario, conoscerne la storia, cioè sapere dove e come sono nati, come si sono sviluppati, che soluzioni sono state date o tentate. È ben noto che le origini di questi problemi sono nella cultura greca: sarebbe un errore voler trovare nella cultura greca o latina le soluzioni, ma per capirli e risolverli è utile conoscerne le origini e la storia: in questo senso possiamo ancora chiederci: qui nous délivrera des Grecs et des Romains? Semplificando ancora una volta, direi che l'antichità classica, se non ci offre più modelli validi, se non è più il tempio dei valori eterni o degli archetipi, resta, però, nel nostro orizzonte storico immediato, che è quello europeo, nell'orizzonte in cui ci muoviamo quando dobbiamo affrontare alcuni problemi di fondo: non vi troviamo oracoli a cui chiedere risposte, ma ci rivela le nostre origini, non tanto vicine da essere sentite come le radici che ci nutrono, abbastanza vicine per chiarire fino in fondo la nostra situazione e per essere coinvolte nella soluzione di problemi importanti della nostra vita.

Per liberarci veramente dei Greci e dei Romani dovremmo mutare radicalmente i nostri rapporti col passato: considerare storia e tradizione come pesi morti di cui bisogna sbarazzarsi, distruggere non solo il provvidenzialismo storico di cui lo storicismo si era liberato, ma la storia stessa. Vie del genere furono tentate dalla rivoluzione culturale cinese e dal maoismo arrivato in Europa e in altre parti del mondo: il furore iconoclastico assaliva non solo la cultura classica, ma tutta la nostra memoria storica, fino agli inizi del Novecento; insieme con Omero, Eschilo, Virgilio venivano scacciati dal nostro orizzonte Dante, Michelangelo, Beethoven. Non possiamo negare che nel furore del '68 vi erano generose esigenze di libertà e di eguaglianza, la denuncia di forme di asservimento della cultura al potere, la lotta contro assurde chiusure della scuola al mondo contemporaneo; ma il tentativo di distruggere la storia rientrava nelle manifestazioni utopistiche di quella confusa esplosione; e dell'utopia restano oggi le conseguenze peggiori: per esempio, il privilegiamento della lettura di scrittori contemporanei insignificanti rispetto alla lettura dei grandi autori del passato. Non abbiamo cambiato le strutture della società, ma abbiamo ristretto il nostro orizzonte culturale. Altri tentativi di distruggere la storia sono nelle manifestazioni varie che vanno sotto l'etichetta del postmoderno; solo che qui non si scorgono le tracce di utopie, ma si sente, piuttosto, il torpore della palude, l'accomodamento più o meno conformistico in una situazione angusta e immutabile. Il pensiero «debole» scivola nel pensiero fiacco (intellettualmente e moralmente). Si può distruggere la coscienza storica, non la storia, che necessariamente ci condiziona, che, se non ci impone scelte determinate, necessariamente ne restringe l'ambito. La distruzione della coscienza storica serve alla rassegnazione: è la rinuncia al mutamento. È paradossale, ma vero, che la distruzione della storia si concilia sia con l'utopismo sia con l'adattamento alla palude.

4. L'unità delle scienze dell'antichità. Gli apporti di archeologia e antropologia culturale

Oggi l'uomo di cultura media conosce il mondo antico più attraverso l'archeologia che attraverso la lettura di scrittori greci e latini (nell'originale o in traduzione): ciò si spiega con la ben nota importanza che l'immagine ha nella cultura di oggi, ma anche con i grandi e continui progressi della ricerca archeologica: interrotta dalla guerra, la ricerca archeologica, che già aveva dato risultati splendidi nei due secoli precedenti, ha ripreso il cammino con ritmo intenso. Alcuni musei, anche tra quelli archeologici, sono affollati per buona parte dell'anno: visitatori e turisti, se cercano la bellezza donata dalla grande arte, sono spinti anche dalla curiosità di conoscere mondi diversi dal nostro.

Gli studi classici tedeschi dalla fine del Settecento in poi sono stati guidati in parte dal principio fondamentale della collaborazione delle scienze dell'antichità (filologia, storia, archeologia, epigrafia, numismatica ecc.) fra loro; benché dietro questo principio vi fossero concezioni della storia non sempre oggi accettabili per noi, è innegabile la sua fecondità. Nell'ultimo mezzo secolo il peso dell'archeologia fra le scienze dell'antichità è notevolmente cresciuto sia per i progressi compiuti nella propria area sia per l'arricchimento che ha dato ad altre discipline (storia economica, storia politica, storia delle religioni ecc.). Le scoperte archeologiche ci riportano sotto gli occhi il modo di vivere dei popoli antichi, ci forniscono indizi anche sul loro modo di pensare. L'interesse dell'archeologia per la ricostruzione della vita materiale è oggi prevalente: direi anche troppo prevalente, se arriva ad emarginare l'interesse per la storia dell'arte, per gli aspetti formali, insomma per le qualità estetiche delle opere; solo scoperte come quelle dei bronzi di Riace suscitano nuove fiammate di entusiasmo per la bellezza dell'arte antica.

L'archeologia ha dato e continua a dare un contributo notevole alla conoscenza delle religioni antiche. Già viva nell'Ottocento e nella prima metà del nostro secolo, la storia delle religioni antiche ha conosciuto dopo l'ultima guerra nuove fortune, e l'attenzione si mantiene diffusa e intensa. La religione greca è, tra le religioni nate nella storia umana, la più ricca di miti, e i miti hanno alimentato prodigiosamente, come tutti sanno, una grande letteratura, arti figurative di altissimo livello, persino la filosofia. Si è anche fatto qualche tentativo di arricchire con qualche mito originale la religione romana, considerata generalmente come povera di mitologia propria. All'interpretazione di miti si sono rivolte e si rivolgono la psicologia storica e la psicanalisi.

Interessi di questo genere per la storia delle religioni antiche si inquadrano in una fervida ricerca che ha tentato di superare il metodo tradizionale della storiografia, rivolto alla ricostruzione degli avvenimenti politici, o, tutt'al più, delle strutture politiche, sociali, economiche; utilizzando ampiamente psicologia storica, antropologia culturale, sociologia, la nuova storiografia, elaborata specialmente in Francia, ha investito religioni, filosofia, letteratura, arti figurative, folklore e cercato di ricostruire la mentalità su cui si basa tutta la vita sociale. Si è avuta, e non è ancora finita, una larga fioritura di studi di questo genere su opere letterarie, miti, costumi, folklore[12]. Non sempre si tratta di novità, perché interessi affini avevano già prodotto opere importanti in Inghilterra e in Germania dalla seconda metà dell'Ottocento ai primi decenni del Novecento. Di tanta fioritura c'è da rallegrarsi, perché ha ravvivato fortemente l'interesse per il mondo antico e perché ha posto anche problemi non futili; ma le ragioni di diffidenza sono tali e tante che la preoccupazione finisce per prevalere sulla letizia. Le scienze tedesche dell'antichità fino ai primi decenni del nostro secolo si fondavano generalmente su una filologia agguerrita, su una ermeneutica dei testi e del materiale archeologico; nell'antropologia francese di oggi la filologia è assente o debole, l'ermeneutica è spesso arbitraria. Con la debolezza filologica convergono, in senso negativo, le tentazioni strutturalistiche, che costringono i dati in schemi tanto semplici e chiari quanto inadeguati, in camicie di forza, talora fabbricate in serie. Georges Dumézil, uno studioso di religioni e miti dell'ambito indeuropeo, uomo di dottrina immensa, ha popolato gli studi classici con una quantità prodigiosa di trinità. Per lo più gli studiosi francesi di psicologia storica non sono affatto retrivi, ma ereditano una concezione della società in cui l'integrazione è così solida che non si riescono più a capire i conflitti e i mutamenti; non raramente la storia viene così schiacciata sulla mentalità primitiva da sembrarne un'appendice. Non solo sul mondo antico, ma anche sul Medioevo, ormai anche su età più recenti, dilaga una letteratura storica che descrive in modo brillante una società immobile; il lettore è molto più attratto dal fascino della descrizione e della rievocazione che dallo sforzo di capire e di informarsi. Navighiamo per diporto in mezzo ad una nuova Belletristik, che distrugge, per altra via, la storia. Quanto alla storiografia siamo arrivati alle soglie del 2000 in una grande confusione, in cui è difficile conciliare le esigenze della sociologia, dell'antropologia, della storia, il bisogno di letteratura amena e il bisogno di verità. In questa confusione, però, il mondo antico, interpretato, colorito nei modi più diversi, conserva una presenza imponente.

5. L'antichità non è un blocco unico. Differenze di civiltà e differenze storiche

Il quadro della civiltà greca antica che usciva dall'intensa ricerca filologica, archeologica, storica dell'Ottocento e del primo Novecento, era molto più ricco e più vario di quello che si aveva ancora nel Settecento: la varietà era determinata dalle differenze tra culture regionali e locali, tra dialetti (la mancanza di unità statale aveva favorito la molteplicità e la ricchezza della cultura), e ancora di più dalle differenze di tempo (la cultura greca antica si dispiegava attraverso un millennio e mezzo). La storia della cultura latina, che fino al I sec. d. C. si accentra in Roma, si presenta meno ricca e varia, ma, anche nell'interpretazione della cultura romana, una volta rivendicatane l'originalità, le barriere del classicismo sono rotte e le differenze segnate con molto più forte senso della misura: oggi gustiamo meglio non solo Plauto, ma anche Seneca e alcuni scrittori cristiani. La Roma della semplicità e del vigore, quella della corruzione e dell'orgia, quella cristiana si collocano al loro giusto posto in un'interpretazione storica libera da pregiudizi e preclusioni. Tuttavia, anche una volta eliminato, o emarginato, il classicismo, prevaleva la visione della cultura greca come illuminata dall'arte e dal lógos, come staccata dal primitivo in quanto rozzezza e barbarie. È vero che nel Settecento Omero era stato riscoperto in contrapposizione al classicismo latineggiante e che il culto di Omero coincideva col culto dei sentimenti ingenui e della poesia priva di artificio; ma era un primitivo caratterizzato da limpida fantasia, se non da chiarezza razionale, non un primitivo ossessionato e delirante; non solo per gli Arcadi, ma anche per il neoumanesimo tedesco il primitivo greco è molto meno barbarico di quello vichiano. Tuttavia già alla fine dell'Ottocento le radici della cultura greca arcaica nel primitivo barbarico attiravano l'attenzione; un contributo venne dalla scoperta nietzschiana del dionisiaco (non per caso l'importante opera sulle credenze greche più antiche relative ai morti, Psyche, fu scritta da Erwin Rohde, un amico di Nietzsche); ma le spinte decisive vennero dalle ricerche su culture primitive extraeuropeee, sviluppatesi in Inghilterra e in Germania; un impulso a quelle ricerche, come pure agli scavi archeologici, venne (bisogna, purtroppo, riconoscerlo) dalle conquiste coloniali in Africa e in Asia. Oggi si può ben affermare che quell'orientamento di studi ha vinto definitivamente; lo studio delle civiltà primitive extraeuropee ha molto progredito e ha dato nuovi impulsi; d'altra parte l'orizzonte della Grecia arcaica si è molto ampliato: grazie alla scoperta di testi, oltre che di materiale archeologico, conosciamo molto meglio l'età micenea e qualche cosa sappiamo anche della preistoria anteriore. Oggi, se mai, c'è il pericolo di considerare la cultura greca arcaica più primitiva di quanto non fosse effettivamente: accade non tanto raramente che il fascino estetico o religioso dell'irrazionale faccia perdere la misura storica. Il nuovo orientamento di ricerche ha avuto effetti largamente positivi anche nell'interpretazione della religione e della cultura romana arcaica, legate a credenze anteriori all'antropomorfismo; connessioni con la magia oggi si scorgono anche nel più antico diritto romano.

Un altro limite definitivamente superato è quello posto da un culto eccessivo dell'originalità greca. Già gli Ateniesi antichi vantavano la loro autoctonia, cioè pretendevano di avere origine dalla loro terra attica, di non essere un popolo di immigrati e di non dovere quasi niente alle civiltà di altri popoli. Si direbbe che questo orgoglio abbia messo i paraocchi a molti filologi e storici dell'Ottocento; uno dei più decisi difensori della purezza, dell'originalità del miracolo greco fu il filologo che pure dette il maggior contributo alla storicizzazione della cultura greca, il Wilamowitz; l'impegno si univa alla persistenza, più o meno consapevole e proclamata, di una pretesa nata col neoumanesimo tedesco, la pretesa, cioè, che i Germani fossero i soli eredi autentici dei Greci. Naturalmente circa gli apporti del vicino Oriente, per esempio della cultura giudaica, si facevano concessioni per l'età ellenistica, la cui conoscenza nella seconda metà dell'Ottocento, grazie anche alla scoperta dei papiri, fece grandi progressi; ma per le età anteriori non si conosceva quasi niente. Va riconosciuto, a giustificazione parziale di tale chiusura, che sui rapporti fra la Grecia preomerica e le religioni, o le «teologie» del vicino Oriente, specialmente dell'Egitto, si erano costruiti, fino alla prima metà dell'Ottocento, miti grandiosi e fragili, che invitavano alla diffidenza. Oggi i miti non sono scomparsi, ma, in una ricerca libera da pregiudizi, generalmente i modi e i tramiti dell'osmosi di cultura fra Grecia e Oriente sono tracciati con prove filologiche e archeologiche attendibili. L'India, in questo contesto, ha perduto l'importanza di un tempo; l'apporto egiziano non appare come il più importante; è salita, invece, in primo piano l'area dell'Asia anteriore, che, con la sua ricca e molteplice cultura, ha trasmesso non pochi elementi di religione, di folklore, di arti figurative a quella greca arcaica.

Queste chiusure a cui ho accennato appaiono di poco peso in paragone con la chiusura di fondo che caratterizzava l'interpretazione dell'antichità classica nella cultura europea: il concetto, cioè, che la cultura greca e latina è nettamente superiore alle altre culture del mondo, anzi l'unica degna del nome, e che lo stesso privilegio va riconosciuto alla cultura europea, continuatrice ed erede di quella classica. Mi riferisco a un'ideologia ben nota sotto l'etichetta di eurocentrismo: non c'è bisogno di illustrarla e di spiegarla. L'esasperazione più barbarica ne è il razzismo; l'eurocentrismo non è necessariamente razzista, ma generalmente il razzismo europeo è eurocentrico.

Si può affermare che, alle soglie del 2000, l'ideologia eurocentrica sia superata, sepolta nel passato? Sarebbe rischioso rispondere di sì: oggi tale ideologia s'intreccia con i rapporti fra il mondo industrializzato e il cosiddetto terzo mondo: questo sarà, probabilmente, il problema centrale per l'umanità all'inizio del prossimo millennio: le vicende della cultura eurocentristica dipenderanno dai modi in cui il problema sarà affrontato e risolto. Si può, tuttavia, affermare che quell'ideologia nel corso del nostro secolo è stata indebolita da attacchi impegnativi: già nella prima metà del secolo l'interesse per le arti figurative extraeuropee, in particolare per quelle africane, non fu fenomeno irrilevante; ma la lotta si è molto estesa nell'ultimo mezzo secolo.

Nel magma in cui viviamo non è difficile solo dare risposte sicure: è già difficile discutere il problema con serenità e misura storica. Negli anni della rivolta in un convegno sentii affermare da un collega di studi classici (si trattava, in verità, di un dilettante di mediocre ingegno) che ormai bisognava guardare con lo stesso occhio alla scultura greca e alla scultura dei Maya; oggi sento dire che studiosi americani di letteratura propongono di bandire i classici delle letterature europee e studiare solo autori delle letterature extraeuropee. Sono manifestazioni comprensibili come reazioni irritate a preclusioni, discriminazioni inique, a forme di razzismo: per questa funzione si possono anche ammirare. È probabile che autori importanti di letterature africane o indie ci siano ignoti e faremmo bene a leggerli invece di tanti nostri romanzi d'intrattenimento; ma non credo che questa sia una ragione plausibile per bandire dalle nostre scuole e dalle nostre case editrici Omero, Virgilio, Dante, Shakespeare, Tolstoi. Ci sono state e ci sono deformazioni, storture, assurdità ispirate da cause nobili, da grandi ideali; ma dobbiamo ritenere che siano sempre necessarie? Il classicismo mise i paraocchi e impedì di apprezzare adeguatamente gli autori fuori del canone; l'eurocentrismo ha messo altri paraocchi ed ha impedito a lungo di capire e apprezzare punte anche alte delle letterature e del pensiero di popoli extraeuropei; oggi possiamo liberarci dai paraocchi senza cadere in assurdità opposte: anche se si vuol mettere in discussione la grandezza artistica di Omero o di Virgilio o di Goethe, bisognerà riconoscere la loro grande presenza nella cultura europea: essi sono nella nostra tradizione culturale e per noi contano anche se questa tradizione vogliamo mettere in discussione o liberarcene: la scultura dei Maya o quella africana sono degnissime di essere conosciute e apprezzate, ma nel nostro orizzonte hanno tutt'altro posto e funzione da quella greca. Non è assurdo sperare che tra la fine di questo millennio e l'inizio del prossimo si arrivi a rapporti più equilibrati di collaborazione col terzo mondo e che il rispetto e la continuazione della nostra tradizione europea non ostacoli la giusta comprensione e valutazione delle altre culture, che non sono poche ed hanno le loro preziose ricchezze.

6. L'antichità nel nostro orizzonte. Il coinvolgimento dell'antichità nel nostro dibattito sui valori. L'antichità e l'unità dell'Europa

Anche da questo discorso emerge, io credo, come l'interpretazione dell'antichità classica sia coinvolta nel dibattito di alcuni fra i più importanti problemi attuali; ciò vale ancora di più per i problemi che pone l'unificazione politica ed economica dell'Europa. Dopo un secolo che ci ha travolti in tragedie fra le più terribili della storia, arriviamo alla fine del millennio con questa grande speranza: un'Europa unita, ricca di energie di ogni genere, che acquisti il suo giusto posto nel mondo, superando sia il complesso di inferiorità rispetto alle superpotenze sia nuove tentazioni di colonialismo. Gli ostacoli da rimuovere sulla via verso l'unità sono ancora molti e pericolosi; il ruolo della cultura in questo compito grandioso non va sopravvalutato (non sono molti, oggi, di fronte alle manifestazioni di forze distruttive, di fronte ai massacri, quelli che si illudono sulla efficacia degli ideali e della cultura); non per questo bisogna rinunciare al suo contributo. È naturale, è giusto che in questo contesto le origini comuni della cultura europea vengano rivalutate e meglio esplorate; e le origini comuni sono nella Grecia antica, nella civiltà ellenistica, nella civiltà romana, che, oltre a creare una nuova cultura originale, diffuse quella greca in Occidente. L'unità cristiana dell'Europa presuppone, ovviamente, quella della civiltà romana, e non c'è bisogno di ripetere quanto la cultura cristiana, che fu, a suo modo, rivoluzionaria, attinse da quella greca e latina. Nel Medioevo si avviò la formazione degli Stati nazionali; non è certamente da mettere in questione, anche se oggi affiorano assurde tentazioni del genere, la funzione progressiva di questa divisione, che attraverso secoli portò a nuove ricchissime civiltà e culture, alla liberazione dal feudalesimo, ad un progresso scientifico, economico, sociale, che, per quanto alto sia stato il prezzo pagato, specialmente dalle classi più povere, non ha confronti in civiltà di altra origine. Ma la divisione non ha mai eliminato una forte unità di fondo. La nascita e lo sviluppo delle lingue e delle letterature volgari avvennero mentre la cultura europea era ancora unificata dal latino: quale importante funzione abbia la letteratura latina medievale come tramite fra la cultura classica e la cultura moderna, oggi sappiamo meglio dopo l'opera di E. R. Curtius, uscita, quasi come un buon auspicio, subito dopo l'ultima guerra mondiale, mentre le devastazioni dell'Europa erano ancora sotto gli occhi di tutti [13].

L'umanesimo, la prima grande fase della cultura moderna, si presenta come un risveglio dell'antichità classica. Dall'umanesimo in poi le fasi e gli orientamenti importanti della cultura europea, scienza sperimentale, filosofia da Cartesio a Hegel, barocco, neoclassicismo, illuminismo, romanticismo, hanno origine in singoli paesi, ma hanno sviluppo europeo e implicano reinterpretazioni dell'antico o conflitti con l'antico; solo dopo il romanticismo l'implicazione si attenua o diviene più rara. L'unità dell'Europa di domani troverà in questa storia della cultura un presupposto vitale. Allo sviluppo unitario della cultura europea l'Italia diede, almeno fino al Seicento, un altissimo contributo e pagò il più caro prezzo: la sua cultura fu cosmopolitica e solo nell'Ottocento diventò nazionale. Quanto ciò abbia pesato in modo negativo nella storia del nostro paese fecero rilevare Sismondi, De Sanctis, Gramsci: l'importanza di questo problema e di questa interpretazione è ben nota. Oggi, però, è lecito chiedersi se il carattere cosmopolitico della nostra cultura dall'umanesimo fino all'età del barocco e di Galileo non abbia avuto anche una funzione positiva nella storia dell'Europa, conservandone il carattere unitario: non sarebbe ingiusto, oggi, rivendicare un merito che abbiamo pagato così caro: rivendicarlo non per alimentare un orgoglio nazionale, ma una nuova coscienza unitaria dell'Europa. La questione si pone oggi in termini molto diversi dai tempi in cui Gramsci si batteva per una nuova cultura nazional-popolare.

7. Cultura classica e cultura comune. Il problema della divulgazione

Questi problemi non sono accademici; anzi è auspicabile che entrino nella cultura comune; e, perché vi entrino, è necessario che la cultura comune non perda del tutto i contatti con la cultura classica. Per varie ragioni, fra cui l'istituzione della scuola unitaria dell'obbligo, senza latino, il contatto diretto con l'antichità classica (cioè il contatto basato sulla lettura di testi nelle lingue originali) si è limitato e indebolito: quindi è divenuto più importante di prima il problema della divulgazione della cultura classica in traduzioni, opere di storia e di critica rivolte ad un largo pubblico, enciclopedie di mole modesta e di facile lettura; l'archeologia può ricorrere alle mostre, ai film, ai mezzi audiovisivi. Che in una parte della scuola media superiore il contatto resti diretto, che si leggano, cioè, e si commentino testi greci e latini (testi di valore, ma senza preclusioni classicistiche), è posizione giusta, da difendere a oltranza; ma nel resto della scuola un contatto attraverso traduzioni e trattazioni divulgative può conservare una funzione non secondaria nella formazione culturale; e ciò vale anche fuori della scuola, presso un pubblico per cui la lettura ancora conti e la cultura non si riduca ad una ricezione visiva e puramente passiva. [...]


[*] Questo saggio, già comparso nel Dizionario della civiltà classica, a cura di F. Ferrari, M. Fantuzzi e altri (Milano 1993), sarà ricompreso in un volume di studi di A. La Penna raccolti da alcuni ex allievi in occasione dei suoi settant'anni, di prossima pubblicazione presso l'editore Rizzoli, Milano. Qui lo si riproduce in forma lievemente ridotta.

[1] Da E. Schoeler, Die Antike und Wir, Leipzig, Dieterich, 1905.

[2]L'antico e Noi, Firenze, Tipografia E. Ariani, 1910.

[3]L'antico e Noi, pp. 22 sgg.

[4]L'antico e Noi, pp. 76 sgg.; 136 sgg.

[5]L'antico e Noi, p. 48.

[6]L'antico e Noi, p. 105.

[7]Rimando al mio libro Orazio e l'ideologia del principato, Torino 1974 (3.a ediz.), pp. 15 sgg.

[8]Su questi temi relativi alla Germania e all'Italia molto di utile si può leggere in L. Canfora, Ideologie del classicismo, Torino 1980; Le vie del classicismo, Bari 1989, e in altre opere, anche dello stesso Canfora, ivi segnalate; per l'Italia vedi anche Mariella Cagnetta, Antichisti e impero fascista, Bari 1979.

[9]Un'utile esperienza a proposito si può fare leggendo M. Finley, Schiavitù antica e ideologie moderne, trad. ital., Bari 1981; Uso e abuso della storia, trad. ital., Torino 1981.

[10]Su questi temi rimando al mio articolo Le vie dell'anticlassicismo, «Quaderni di storia» n. 3, 1976, pp. 1-13.

[11]Citato dallo Zielinski, L'Antico e noi, pp. 86 sg.

[12]Per la storia di questi studi in Francia una ricca informazione ora si può attingere dall'opera di R. Di Donato, Per una antropologia storica del mondo antico, Firenze 1990.

[13] Europäische Literatur und lateinisches Mittelalter, Bern 1948.


Go to Arachnion nr. 1 - contents or to Arachnion - home page


Last technical revision June, 9, 1995.

This document (http://www.cisi.unito.it/arachne/num1/lapenna/.html) is part of «Arachnion - A Journal of Ancient Literature and History on the Web» (http://www.cisi.unito.it/arachne/arachne.html). The editors are Maurizio Lana and Emanuele Narducci. The journal is distributed by the host of CISI - Università degli Studi di Torino, Via Sant'Ottavio 20, I-10124 Torino .
Quoting this document, please remember to mention the original paper edition, if any, and the electronic edition of Arachnion (in the form: Arachnion. A Journal of Ancient Literature and History on the Web, nr. 1 - http://www.cisi.unito.it/arachne/num1/lapenna.html). If you like to access this document through a WWW page, please create a link to it, not to a local copy.